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La procura di firenze:

"La nuova inchiesta riguarda uno degli esecutori"

"Berlusconi e Dell'Utri non indagati"

Il premier: "Mafia? Voci infamanti"

Lo sfogo del Cavaliere davanti ai giovani del Pdl:

"Strozzerei chi fa libri e film come "La Piovra""

MILANO - Non si fa attendere la replica di Michele Placido a Silvio Berlusconi.

Il premier dichiara che strozzerebbe volentieri gli autori di film e libri come La Piovra "che ci fanno fare una così bella figura" nel mondo?

Il Cavaliere, risponde l'attore,

"si dovrebbe autostrozzare perché Il capo dei capi

(una fiction televisiva su Salvatore Riina, ndr)

è un prodotto di Canale 5.

Firmato: il Commissario Cattani".

2009-10-29

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2009-11-29

La procura di firenze: "La nuova inchiesta riguarda uno degli esecutori"

"Berlusconi e Dell'Utri non indagati"

Il premier: "Mafia? Voci infamanti"

Lo sfogo del Cavaliere davanti ai giovani del Pdl:

"Strozzerei chi fa libri e film come "La Piovra""

FIRENZE - "Berlusconi e Dell'Utri non sono indagati per mafia". I pm di Firenze smentiscono le indiscrezioni pubblicate da Il Giornale e Libero e soprattutto le voci di un imminente avviso di garanzia nei confronti del presidente del Consiglio. "Non è vero" ha dichiarato ai cronisti il procuratore capo di Firenze, Giuseppe Quattrocchi. Lo stesso Cavaliere bolla come "infondate e infamanti" le accuse di un suo presunto coinvolgimento nelle stragi di mafia. "Non capisco - ha detto Berlusconi davanti ai giovani del Pdl - come si fanno a pensare cose del genere e quali sarebbero state le mie motivazioni". Poi ha aggiunto: "Se trovo chi ha fatto le nove serie de La Piovra e chi scrive libri sulla mafia facendoci fare brutta figura nel mondo giuro che lo strozzo". E poco dopo, nel suo intervento all'aeroporto di Olbia: "Tu, Vito (Riggio, presidente dell'Enac, ndr), hai parlato prima dei problemi con la mafia. E che problema c'è? Ci sono io. Nella vita bisogna sorridere, ci vuole ottimismo..." (Berlusconi ha anche ironizzato sulle richieste economiche avanzate dalla moglie Veronica Lario per il divorzio. Rivolgendosi dal palco al presidente di Assaeroporti Fabrizio Palenzona, il premier ha detto: "Non inviterò più a cena Palenzona perché dopo le richieste per il divorzio della mia signora non so se potrò permettermi un menù adatto a lui...").

FIRENZE - A proposito delle inchieste sulle stragi del '93-'93, secondo quanto spiegato dalla procura la nuova indagine di Firenze riguarda uno degli esecutori. "C'è un modello 21 - ha dichiarato Quattrocchi - che riguarda residue posizioni di soggetti che, secondo noi, non sono stati raggiunti a suo tempo da quanto giovava per la pronuncia di una sentenza. Era rimasto fuori qualcuno, stiamo cercando di individuarlo, e abbiamo buonissime speranze di farlo". Quattrocchi ha precisato che si tratta di "fatti passati in giudicato, che non precludono la rivisitazione di altre responsabilità", ed ha aggiunto: "Stiamo rivedendo tutto il contesto perché emergono responsabilità su uno degli esecutori".

PALERMO - E alla procura di Palermo? "Capisco perché da Firenze abbiano smentito la notizia: era stato scritto che li avevano iscritti loro. Su di noi nessuno l'ha scritto e quindi non diciamo niente": è quanto afferma ad Apcom il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia.

L'INCHIESTA - Venerdì il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Paolo Bonaiuti aveva smentito categoricamente che Berlusconi fosse indagato. Un intervento che si era reso necessario dopo gli ultimi boatoas riguardanti presunte iniziative giudiziarie nei confronti del premier dopo le affermazioni di Gaspare Patuzza. Il pentito, davanti ai magistrati della procura di Firenze che hanno riaperto l'indagine, archiviata nel 1998, sulle stragi di mafia del 1993 - l'attentato agli Uffizi a Firenze, le bombe a Roma e in via Palestro a Milano, il fallito attentato allo stadio Olimpico della capitale --, ha parlato in una serie di verbali di contatti fra i suoi capi e la politica. In particolare, in un verbale del giugno 2009 - stralci del quale sono stati pubblicati in questi giorni da diversi quotidiani - il pentito racconta di un incontro con il suo capo, il boss condannato all'ergastolo Giuseppe Graviano, in un bar di via Veneto a Roma nel gennaio 1994, nel quale gli venne detto che "tutto è chiuso bene con i politici, abbiamo ottenuto quello che cercavamo" e che la loro controparte era rappresentata da Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. I verbali di Spatuzza sono stati trasmessi dalla procura di Firenze a quella di Palermo, dove si sta svolgendo il processo d'appello a Dell'Utri, imputato di concorso esterno in associazione mafiosa, che in primo grado è stato condannato dal Tribunale a nove anni di carcere. Il pentito deporrà il prossimo 4 dicembre nell'aula bunker di Torino dove, per motivi di sicurezza, si trasferirà la Corte d'Appello palermitana.

 

28 novembre 2009(ultima modifica: 29 novembre 2009)

 

 

 

 

I pm e quelle domande

a Spatuzza sul Cavaliere

Negli interrogatori del pentito anche il procuratore Quattrocchi si concentra sul ruolo dei politici

Gaspare Spatuzza (Fotogramma)

Gaspare Spatuzza (Fotogramma)

C’ era anche il procuratore di Firenze Giuseppe Quattrocchi, il 18 giugno scorso, nel "luogo riservato non indicato per motivi di sicurezza" dove s’è svolto l’interrogatorio di Gaspare Spatuzza nel quale per la prima volta (almeno stando ai verbali trasmessi a Palermo) il pentito ha fatto i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. E’ l’occasione in cui l’ex mafioso della cosca dei fratelli Graviano racconta di quando Giuseppe Graviano gli disse che s’era chiuso l’accordo politico con quei due personaggi, in un bar di via Veneto a Roma, a gennaio del 1994.

Durante quell’interrogatorio il procuratore Quattrocchi è ovviamen­te interessato alle rivelazioni del col­laboratore di giustizia, come i due sostituti Nicolosi e Crini, e di tanto in tanto interviene. Anche per chie­dere particolari apparentemente insi­gnificanti, ma utili per la ricerca di eventuali riscontri. Per esempio vuol sapere se l’incontro tra Spatuz­za e Graviano avvenne di giorno o di sera. E chiede al pentito di ricordare con esattezza le espressioni usate da Giuseppe Graviano quando gli parlò dell’attuale presidente del Consiglio che, a suo dire, aveva chiuso l’accor­do con la mafia. "Ma Berlusconi è in­teressato a che cosa? — domanda Quattrocchi —. L’ha detto lui quan­do ha fatto il nome di Berlusconi che mette a paragone dei crasti (cornuti, secondo l’espressione usata da Gra­viano con Spatuzza; ndr ) che non avevano adempiuto? Questo Berlu­sconi, lui che cosa ha detto? Che pos­sibilità aveva e che interesse aveva a fare queste cose, l’ha precisato?". Il pentito risponde in maniera molto vaga, ripetendo ciò che ave­va già detto: "Sì, abbiamo chiuso tutto. Per noi a Roma là si è chiuso tutto. Là è il colpo di grazia (riferi­to all’attentato dell’Olimpico poi fallito; ndr ), quindi a ’sto punto le persone serie gli avevano dato a lui quello che lui andava cercando". L’interrogatorio prosegue per altre cinquanta pagine di verbale, e i quesiti si concentrano sulla princi­pale novità introdotta da Spatuzza, cioè il presunto accordo politico tra Graviano e Berlusconi. Cercan­do di approfondire il più possibile il ruolo dei politici. Le domande, comprese quelle del procuratore Quattrocchi, conferma­no che da quel giorno l’indagine di Firenze sui mandanti delle stragi ma­fiose del ’93 s’è concentrata nuova­mente sui possibili retroscena politi­ci, già cercati senza successo nell’in­chiesta archiviata undici anni fa.

È dunque evidente, e non poteva esse­re altrimenti, che dal momento in cui l’ex mafioso della cosca Gravia­no ha parlato di Berlusconi e Del­l’Utri il lavoro degli inquirenti ha preso anche quella direzione. Oltre agli accertamenti su un paio di ulte­riori esecutori materiali, anch’essi emersi dalle dichiarazioni di Spatuz­za, confermati ieri da Quattrocchi. Al di là dell’aspetto tecnico-forma­le dell’iscrizione o meno dei nomi dei due politici sul registro degli in­dagati (o di due pseudonimi, come accadde nel 1996 con l’indicazione di AutoreUno e AutoreDue), dagli at­ti fiorentini ora allegati al processo d’appello contro Marcello Dell’Utri (già condannato in primo grado per concorso in associazione mafiosa) emerge piuttosto chiaramente che i pubblici ministeri hanno ripreso a indagare sul loro ipotetico coinvolgi­mento. Attraverso le domande a Spa­tuzza, ma non solo. Per verificare la plausibilità dell’incontro tra il penti­to e Giuseppe Graviano al bar Doney di via Veneto, hanno ripescato verba­li di altri pentiti di tanto tempo fa, acquisito foto e planimetrie del loca­le, cercato altri riscontri. E sono an­dati a riascoltare i collaboratori di giustizia che già dieci anni fa aveva­no tirato in ballo il premier e il suo braccio destro siciliano. Un aspetto dell’indagine stretta­mente collegato al presunto patto del ’94 tra Graviano e i politici è pu­re quello della "trattativa" prosegui­ta, secondo Spatuzza, nei dieci anni successivi. Anche su questo — come i loro colleghi di Palermo e Caltanis­setta — lavorano gli inquirenti tosca­ni. Il pentito racconta di quando nel 2002 Filippo Graviano, nel carcere di Tolmezzo, gli confidò che "se non arriva niente da dove deve arrivare", cioè un intervento di parte politica in favore dei detenuti di mafia, sa­rebbe stato il caso di cominciare a parlare coi magistrati. È un passag­gio importante dei rapporti ma­fia- istituzioni scaturiti dalla "strate­gia stragista" di Cosa Nostra.

E sullo sfondo c’è ancora Berlusconi, visto che nel periodo di cui parla Spatuzza c’era di nuovo un governo guidato dal fondatore di Forza Italia. Nell’interrogatorio del 29 giugno 2009 è ancora il procuratore Quat­trocchi a inserirsi con una domanda "a proposito sempre degli interlocu­tori politici", per sapere se — a giu­dizio del collaborante — Filippo Gra­viano aveva parlato col fratello Giu­seppe dell’accordo chiuso nel ’94. E nell’incontro del 3 settembre tra i magistrati e Filippo Graviano, incen­trato proprio sul colloquio di Tol­mezzo con Spatuzza di cui Graviano nega il contenuto, il pubblico mini­stero Alessandro Crini espone con grande schiettezza la posizione della Procura di Firenze: "Con lei si parla bene, un italiano consapevole, que­ste cose le capisce al volo... Noi pen­siamo che Spatuzza abbia capito be­ne, e pensiamo che lei si sia difeso molto bene, con un’interpretazione molto saggia, che però secondo noi non è quella giusta". Graviano — il boss che in prigione sostiene esami di Economia e commercio con risul­tati lusinghieri, e che ha già dichiara­to di essersi dissociato dal suo passa­to, senza però parlare di Cosa Nostra — risponde che lui non dice bugie; semmai non dice. E ribadisce di "non avere cognizione, né diretta né indiretta, di questi impegni, accordi, o come si possono chiamare; ma quella risposta articolata che vi ho dato è per aprirvi un sentiero, dicia­mo... ". Quell’incontro coi magistrati s’è chiuso in fretta, ma l’inchiesta sulle stragi di mafia prosegue. An­che sui presunti "interlocutori politi­ci " di chi metteva le bombe.

Giovanni Bianconi

29 novembre 2009

 

 

 

 

 

LA NECESSITA’ DEL DIALOGO

Leggi, rispetto e senso di realtà

Il "concorso esterno in associazione mafiosa " si è dimostrato una categoria penale alquanto fumosa e imprecisa. Le accuse che verrebbero mosse al presidente del Consiglio dalle procure di Palermo e Firenze appaiono a molti (me compreso) poco plausibili. Sono queste ragioni sufficienti perché i procuratori debbano rinunciare a indagare? No, ne hanno il diritto, peraltro il procuratore capo di Firenze ha smentito ieri che il presidente del Consiglio sia indagato. Ma esiste una soglia al di là della quale i problemi smettono d’essere esclusivamente giudiziari e assumono una dimensione politica.

Dopo gli scandali dell’estate, il fallimento del Lodo Alfano, le reazioni di Berlusconi, le sortite dell’Associazione nazionale magistrati, il processo Mills e la crescente violenza verbale del dibattito politico, la soglia ormai è stata largamente superata. Se le indagini terminassero rapidamente, in un senso o nell’altro, il danno sarebbe contenibile. Ma conosciamo purtroppo il copione: un lungo viaggio attraverso la giustizia destinato spesso a concludersi con la prescrizione o con risultati ambigui che lasciano nella bocca degli italiani il gusto amaro di un’attesa frustrata. La sentenza, in questi casi, non è quella che verrà pronunciata nell’ultimo grado di giudizio. È quella che ciascuna delle due giurie popolari (una colpevolista, l’altra innocentista) pronuncia subito e che contribuisce a rendere l’aria del Paese ancora più irrespirabile. Possiamo permetterci, in un momento di grandi crisi, un clima di continui conflitti civili? Possiamo permettere che il Paese venga politicamente paralizzato da un caso che si concluderà quando molti dei suoi protagonisti saranno morti o a riposo? Qualcuno spera forse che un ennesimo scandalo costringa Berlusconi ad andarsene.

È isolato, si considera assediato dal nemico e non ha compreso che ogni nuova legge ad personam, come quella sul processo breve, rende ancora più difficile la riforma giudiziaria di cui il Paese ha bisogno. Ma non sembra avere perso né il desiderio di restare al potere, né il sostegno della maggioranza, né il consenso della maggior parte dei suoi elettori. Si può far cadere un governo che dispone di una consistente maggioranza senza dare un duro colpo al processo democratico? È una domanda a cui il presidente della Repubblica ha già dato una risposta: no, non si può. Occorre quindi una tregua, e la soluzione migliore per garantirne l’osservanza potrebbe essere il ritorno a un maggior senso di responsabilità dei poteri dello Stato, evitando forzature e invasioni di campo. Questo processo sarebbe favorito da una forma di immunità (che ricordiamolo fu introdotta dai padri costituenti) purché concordata a larga maggioranza.

Ma la tregua sarebbe precaria se il governo non fosse disposto a fare con l’opposizione le riforme istituzionali che ha promesso, e su cui esistono ormai molte convergenze. È questo, forse, l’aspetto più tristemente paradossale dell’attuale situazione. Chiunque legga i progetti del governo e li confronti per esempio alla bozza Violante sulla riforma dell’esecutivo e la creazione di un Senato delle regioni, constata che il divario fra maggioranza e opposizione si è considerevolmente ridotto. Ma vi è ancora chi preferisce parlare d’altro, e impedisce così al suo Paese di avere istituzioni conformi alle sue esigenze e ambizioni.

Sergio Romano

29 novembre 2009

 

 

 

L'OPPOSIZIONE AL CAVALIERE: "SULLA MAFIA NON SI SCHERZA"

"Berlusconi dovrebbe strozzarsi da solo

visto che la fiction su Riina è di Canale 5"

Placido risponde allo sfogo del premier contro film come "La Piovra": "La mafia? Riprese cinematografiche"

MILANO - Non si fa attendere la replica di Michele Placido a Silvio Berlusconi. Il premier dichiara che strozzerebbe volentieri gli autori di film e libri come La Piovra "che ci fanno fare una così bella figura" nel mondo? Il Cavaliere, risponde l'attore, "si dovrebbe autostrozzare perché Il capo dei capi (una fiction televisiva su Salvatore Riina, ndr) è un prodotto di Canale 5. Firmato: il Commissario Cattani".

GLI ATTENTATI - "Ha ragione Berlusconi - ironizza lo storico protagonista delle prime quattro serie della Piovra, contattato dall'Adnkronos - la mafia non esiste: gli attentati a Falcone e Borsellino, a Firenze, Milano e Torino erano solo riprese cinematografiche dirette da Damiano Damiani, Florestano Vancini e Luigi Perelli (alcuni tra i registi della serie, ndr)". "Questa volta mi pare il premier Berlusconi abbia fatto un po' autogol - aggiunge - perché La Piovra è roba di tanti anni fa, mentre le fiction tv più recenti sulla mafia, da Il capo dei capi a quelle su Falcone e Borsellino le ha fatte suo figlio per Mediaset".

"NON VORREI SI DICESSE CHE LA MAFIA NON ESISTE"- Le parole del premier hanno scatenato proteste anche da parte dell'opposizione. "Da Berlusconi arrivano sdegnate smentite alle notizie di indagini su di lui per reati collegati alla mafia (per altro diffuse dai suoi giornali di riferimento) e contemporaneamente barzellette sulla mafia e battutacce contro chi scrive o fa film contro La Piovra - sottolinea il responsabile della segretaria del Pd, Filippo Penati. "Il premier - accusa Penati -, col suo solito stile, sbaglia gravemente a far apparire la mafia come un fenomeno mediatico su cui magari ironizzare e non quella grande tragedia, quel male profondo che grava sul nostro Paese e specie sul Sud". Rincara la dose Anna Finocchiaro: "Non entro nel merito di inchieste giudiziarie e di avvisi di garanzia al Premier per altro annunciati dai quotidiani vicini al Silvio Berlusconi. Voglio solo dire che il problema della mafia e della criminalità organizzata è un problema molto serio. Non si può pensare di risolvere tutto con battute, barzellette o mostrando la volontà di mettere la sordina al problema. Non vorrei che alla fine di tutto - aggiunge la Finocchiaro - questo qualcuno tornasse a dire che la mafia non esiste". "Dalle parole della Finocchiaro appare la tentazione del Pd di risolvere la lotta politica per via giudiziaria" commenta il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Paolo Bonaiuti.

L'OPPOSIZIONE - Proprio l'opposizione era stata chiamata in causa dallo stesso Placido: "C'è? Spero che vigili su queste cose - è la posizione del regista-attore. In televisione o nei ministeri non passa solo quello che dice il governo. C'è l'opposizione, non solo Berlusconi. In democrazia l'opposizione c'è. Speriamo che non vengano negati quei minimi spazi di libertà. Che lo Stato stesso produca in piena libertà. Dipende dagli autori e dai politici". Ma non bisogna spegnere i riflettori: "In Italia un po' di democrazia ci sta ancora. Finché si fanno film come Gomorra. Grazie a Dio ci sono persone, c`è una società che continua a fare e a lavorare in piena libertà. Ora tocca all’opposizione - insiste Michele Palcido - si faccia viva, dia una risposta a Berlusconi. Noi lavoreremo sempre in piena coscienza e in piena libertà. Quando saremo alla frutta vedremo".

GIRONE - Anche Remo Girone critica le parole del premier. "Se Berlusconi mi vuole strozzare son qui che lo aspetto. Quale onore essere minacciati da lui" afferma l'ex "cattivo" Tano Cariddi.

LUCARELLI - "Con le parole di Berlusconi, noi scrittori di noir siamo tutti a rischio" è stato il commento di Carlo Lucarelli alle parole del presidente del Consiglio sugli scrittori di mafia. "Ci dispiace molto di far fare una gran brutta figura all'Italia, cercando di aprire gli occhi su quello che ci circonda", ha aggiunto Lucarelli.

 

28 novembre 2009

 

 

 

 

Per il quotidiano diretto da Belpietro "Anche Dell'Utri coinvolto nell'inchiesta"

"Berlusconi indagato per mafia"

La notizia riportata da Il Giornale e Libero. Feltri: "Forse già in arrivo l'avviso di garanzia"

Silvio Berlusconi (LaPresse)

Silvio Berlusconi (LaPresse)

ROMA - "Iscrizione di Berlusconi sul registro degli indagati e - tra pochi giorni, forse oggi stesso - avviso di garanzia": lo scrive Vittorio Feltri in un editoriale di prima pagina de Il Giornale. Il quotidiano apre con la foto del presidente del consiglio accompagnata dallo strillo: "Se questo è un mafioso". Sottotitolo: "In arrivo l’avviso di garanzia basato sui deliri dei pentiti: "Berlusconi fece fare le stragi". Per quale motivo? Non c'è risposta. Infatti, è un'idiozia". Occhiello: "L’ultima follia dei magistrati".

DELL'UTRI - Ancora più diretto Libero: il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro titola "Silvio indagato per mafia". "Nell'inchiesta per mafia - scrive Gianluigi Nuzzi - il senatore Marcello Dell’Utri e il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sono indagati per magia. L'accelerazione è avvenuta a metà ottobre". Proprio Dell'Utri, in un'intervista al Corriere della Sera in edicola, parla di "accuse "è offensive oltreché demenziali". "Come si fa solo a pensare una cosa simile - afferma - e metterla per iscritto? È un collegamento fantasioso nato dalla mente non equilibrata di qualcuno".

 

28 novembre 2009

 

 

 

 

 

 

"Conti pubblici, è necessario mantenere il rigore di bilancio"

Berlusconi: "Mi occupo di mafia,

ma soltanto con le barzellette"

Il premier durante una cena a Villa Madama: "Bene Napolitano, avanti con la riforma della giustizia"

Silvio Berlusconi (Fotogramma)

Silvio Berlusconi (Fotogramma)

ROMA - "C'è qualcuno che dice che mi sono molto occupato di mafia, a partire dal '92. È vero: sulla mafia ho raccontato molte storielle...". È stata questa, a quanto si apprende, la battuta che Silvio Berlusconi ha dedicato alle indiscrezioni giudiziarie che lo riguardano. Il Presidente del Consiglio ha scelto di replicare con ironia ai boatos circa presunti avvisi di garanzia relativi a inchieste di mafia (ipotesi già smentita dal portavoce del premier, Paolo Bonaiuti). Nel corso della cena a Villa Madama riservata agli imprenditori che rappresentano il made in Italy con Alitalia, Berlusconi ha proprio ripetuto una delle "storielle" che racconta di frequente. Imitando il dialetto palermitano, Berlusconi ha raccontato questa barzelletta: "Un bimbo siciliano chiede al padre 'papà, vero è che morì Einstein?', e il padre risponde 'vero è, troppo sapeva...'".

GIUSTIZIA E CONTI PUBBLICI - Il premier avrebbe poi dichiarato di aver apprezzato le parole del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sulla giustizia. "E ora - questo il suo ragionamento - andiamo avanti con la riforma". A proposito dei conti pubblici, il presidente del Consiglio ha spiegato che l'Italia "sta reagendo meglio di altri alla crisi", ma "è necessario mantenere il rigore di bilancio". Berlusconi ha poi ricordato che "il sistema bancario è solido grazie al risparmio delle famiglie" e che il Paese è messo meglio di altri, "come dimostra il Pil del terzo trimestre". "Voi - ha aggiunto - siete imprenditori, nelle crisi chi è più bravo recupera posizioni nei confronti dei competitori".

 

 

27 novembre 2009(ultima modifica: 28 novembre 2009)

REPUBBLICA

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2009-11-29

I magistrati toscani smentiscono le affermazioni di "Libero": "Nessun procedimento"

Il presidente del Consiglio attacca: "Voci infamanti". Poi si scaglia contro chi scrive libri su Cosa Nostra

Il pm: "Berlusconi e Dell'Utri non indagati"

Il premier: "Strozzerei chi ha scritto La Piovra"

La replica di Michele Placido, commissario Cattani nella fiction: "E' un autogol"

Il pm: "Berlusconi e Dell'Utri non indagati" Il premier: "Strozzerei chi ha scritto La Piovra"

Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri

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Multimedia

* AUDIO: Attilio Bolzoni risponde al premier

FIRENZE - I magistrati toscani smentisono le affermazioni di "Libero" secondo il quale il Cavaliere e Dell'Utri sarebbero stati iscritti nel registro degli indagati fin dallo scorso ottobre nell'ambito dell'inchiesta sulle stragi del 1993. Lo ha detto il procuratore capo di Firenze Giuseppe Quattrocchi rispondendo ai giornalisti: "Libero può scrivere quello che vuole. Berlusconi e Dell'Utri non sono indagati".

Il Cavaliere: "Accuse infondate". "Contrariamente alla prudenza usata dagli altri quotidiani che, pur svelando le confidenze dei pentiti sul premier e sul suo braccio destro Dell'Utri, hanno informato che i riscontri sono ancora in corso, questa mattina, il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro, è uscito con un titolo senza mezzi termini: "Silvio indagato per mafia". Cosa falsa dice il procuratore di Firenze e da Olbia, dove il premier ha incontrato i giovani del Pdl, Berlusconi attacca: "Sono accuse infondate e infamanti. La maggior parte della magistratura è di sinistra e per questa ragione cerca un pretesto per attaccare il presidente del consiglio". Poi prosegue: "Se trovo chi ha fatto le nove serie de La Piovra e chi scrive libri sulla mafia che ci fanno fare una bella figura, lo strozzo".

Placido: "Ha fatto autogol". "Una battuta, quella di Silvio Berlusconi, che Michele Placido, popolare commissario Cattani proprio nella Piovra, definisce un "autogol": "La piovra è roba di tanti anni fa, mentre le fiction tv più recenti sulla mafia, da Il capo dei capi a quelle su Falcone e Borsellino, le ha fatte suo figlio per Mediaset. Quando Gomorra è stato scritto ed è diventato di successo internazionale, le immagini sullo scandalo immondizia e i problemi della camorra avevano già prima fatto il giro del mondo. Naturalmente si tratta ogni volta di fare informazione seria e responsabile, ma quel che è accaduto sarebbe grave venisse nascosto".

Bossi: "Leadership della coalizione indiscussa". Una voce a favore di Berlusconi viene da Umberto Bossi, presente a Vicenza al quarto meeting della Lega nord estero. Il ministro per le Riforme rassicura che le voci intorno al premier non indeboliscono il presidente del Consiglio: "Berlusconi mantiene la parola - ha detto il fondatore del Carroccio - e la sua leadership è indiscussa. Non siamo preoccupati per la coalizione".

(28 novembre 2009) Tutti gli articoli di cronaca

 

 

 

 

 

Il presidente del gruppo contro Repubblica e l'inchiesta sugli investimenti della mafia a Milano

Pronte querele per diffamazione: "Una campagna che non è degna di un Paese civile"

Marina Berlusconi: "In Fininvest

non ci sono zone d'ombra"

Ghedini: "L'articolo di Repubblica indecente e scandaloso"

Marina Berlusconi: "In Fininvest non ci sono zone d'ombra"

Silvio Berlusconi e sua figlia Marina, presidente Fininvest

ROMA - Marina Berlusconi alza lo scudo e difende a spada tratta il gruppo di famiglia: "Nell'azionariato Finivest non esistono zone d'ombra e anni ed anni di indagini e perizie della procura di Palermo lo hanno sottoscritto". Il presidente di Fininvest replica all'articolo "L'asso nella manica dei boss Graviano, i soldi del Cavaliere" pubblicato oggi da Repubblica.

"Non è degno di un Paese civile che la storia e il presente di un grande gruppo di livello internazionale, portato al successo dal lavoro, dal talento e dal coraggio di un grande imprenditore, di tutti coloro che vi lavorano - si legge nella nota - vengano così vilmente e senza il minimo fondamento infangati e insultati da professionisti della diffamazione, della calunnia e della disinformazione".

Sul piede di guerra l'avvocato di Berlusconi e deputato Pdl, Niccolò Ghedini. L'articolo, dice, è "scandaloso, davvero indecente, fondato su ricostruzioni totalmente inventate, inverosimili e sconnesse da qualsiasi realtà fattuale o processuale. Qui non si tratta né di libertà di stampa né di critica politica, bensì di vera e propria diffamazione - conclude Ghedini - che dovrà essere perseguita in tutte le opportune sedi giudiziarie".

Annuncia querele Marina Berlusconi. Gli avvocati di Mediaset e Fininvest stanno preparando denunce contro il direttore di Repubblica e gli articolisti dell'inchiesta sugli investimenti della mafia a Milano.

"Il 100% della Fininvest, come emerge incontrovertibilmente da tutti i documenti - spiega la figlia del presidente del Consiglio - appartiene alla nostra famiglia. Così è oggi e così è da sempre. Anni e anni di indagini e perizie ordinate proprio dalla Procura di Palermo, durante i quali è stato rovistato in ogni angolo della nostra storia, si sono conclusi con l'unico possibile risultato: nell'azionariato Fininvest non sono mai entrati una lira o un euro dall'esterno, non esistono zone d'ombra. Ma tutto questo per chi persegue un preciso disegno politico di annientamento non conta nulla. L'importante è mettere su, senza nessun appiglio minimamente credibile, una sconcertante operazione di killeraggio per la quale provo rabbia e disgusto".

28 Novembre 2009

 

 

 

 

 

 

L'INCHIESTA - Il peso del ricatto al premier della famiglia di Brancaccio

sembra legato all'inizio della sua storia di imprenditore

Sono i soldi degli inizi del Cavaliere

l'asso nella manica dei fratelli Graviano

Più che un eventuale avviso di garanzia per le stragi del '93, il premier dovrebbe

temere il coinvolgimento da parte delle cosche sulle storie di denaro affari e politica

di ATTILIO BOLZONI e GIUSEPPE D'AVANZO

Sono i soldi degli inizi del Cavaliere l'asso nella manica dei fratelli Graviano

Giuseppe Graviano

Soldi. Soldi "loro" che non sono rimasti in Sicilia, ma "portati su", lontano da Palermo. "Filippo Graviano mi parlava come se fosse un suo investimento, come se la Fininvest fossero soldi messi da tasca sua". Per Gaspare Spatuzza, da qualche parte, la famiglia di Brancaccio ha "un asso nella manica". Quale può essere questo "jolly" non è più un mistero. Per i mafiosi, che riferiscono quel che sanno ai procuratori di Firenze, è una realtà il ricatto per Berlusconi che Cosa Nostra nasconde sotto la controversa storia delle stragi del 1993. Nell'interrogatorio del 16 marzo 2009, Spatuzza non parla più di morte, di bombe, di assassini, ma del denaro dei Graviano. E ha pochi dubbi che Giuseppe Graviano (che chiama "Madre Natura" o "Mio padre") "si giocherà l'asso" contro chi a Milano è stato il mediatore degli affari di famiglia, Marcello Dell'Utri, e l'utilizzatore di quelle risorse, Silvio Berlusconi.

Il mafioso ricostruisce la storia imprenditoriale della cosca di Brancaccio, con i Corleonesi di Riina e Bagarella e i Trapanesi di Matteo Messina Denaro, il nocciolo duro e irriducibile di Cosa nostra siciliana.

È il 16 marzo 2009, il mafioso di Brancaccio racconta ai pubblici ministeri del "tesoro" dei Graviano. "Cento lire non gliele hanno levate a tutt'oggi. Non gli hanno sequestrato niente e sono ricchissimi".

"Non si fidano di nessuno, hanno costruito in questi vent'anni un patrimonio immenso". Per Gaspare Spatuzza, due più due fa sempre quattro. Dopo il 1989 e fino al 27 gennaio 1994 (li arrestano ai tavoli di "Gigi il cacciatore" di via Procaccini), Filippo e Giuseppe decidono di starsene latitanti a Milano e non a Palermo. Hanno le loro buone ragioni. A Milano possono contare su protezioni eccellenti e insospettabili che li garantiscono meglio delle strade strette di Brancaccio dove non passa inosservato nemmeno uno spillo. E dunque perché? "E' anomalissimo", dice il mafioso, ma la chiave è nel denaro. A Milano non ci sono uomini della famiglia, ma non importa perché ci sono i loro soldi e gli uomini che li custodiscono. I loro nomi forse non sono un mistero. Di più, Gaspare Spatuzza li suggerisce. Interrogatorio del 16 giugno: "Filippo ha nutrito sempre simpatia nei riguardi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri, (...) Filippo è tutto patito dell'abilità manageriale di Berlusconi. Potrei riempire pagine e pagine di verbale [per raccontare] della simpatia e del... possiamo dire ... dell'amore che lo lega a Berlusconi e Dell'Utri".

"L'asso nella manica" di Giuseppe Graviano, "il jolly" evocato dal mafioso come una minaccia - sostengono fonti vicine all'inchiesta - non è nella fitta rete di contatti, reciproche e ancora misteriose influenze che hanno preceduto le cinque stragi del 1993 - lo conferma anche Spatuzza - , ma nelle connessioni di affari che, "negli ultimi vent'anni", la famiglia di Brancaccio ha coltivato a Milano. E' la rassicurante condizione che rende arrogante anche Filippo, solitamente equilibrato. Dice Gaspare: "[Filippo mi disse]: facceli fare i processi a loro, perché un giorno glieli faremo noi, i processi".

Nella lettura delle migliaia di pagine di interrogatorio, ora agli atti del processo di appello di Marcello Dell'Utri, pare necessario allora non farsi imprigionare da quel doloroso 1993, ma tenere lo sguardo più lungo verso il passato perché le stragi di quell'anno sono soltanto la fine (provvisoria e sfuggente) di una storia, mentre i mafiosi che hanno saltato il fosso - e i boss che hanno autorizzato la manovra - parlano di un inizio e su quell'epifania sembrano fare affidamento per la resa dei conti con il capo del governo.

Le cose stanno così. Berlusconi non deve temere il suo coinvolgimento - come mandante - nelle stragi non esclusivamente mafiose del 1993. Può mettere fin da ora nel conto che sarà indagato, se già non lo è a Firenze. Molti saranno gli strepiti quando la notizia diventerà ufficiale, ma va ricordato che l'iscrizione al registro degli indagati mette in chiaro la situazione, tutela i diritti della difesa, garantisce all'indagato tempi certi dell'istruttoria (limitati nel tempo). Quando l'incolpazione diventerà pubblica, l'immagine internazionale del premier ne subirà un danno, è vero, ma il Cavaliere ha dimostrato di saper reggere anche alle pressioni più moleste. E comunque quel che deve intimorire e intimorisce oggi il premier non è la personale credibilità presso le cancellerie dell'Occidente, ma fin dove si può spingere e si spingerà l'aggressione della famiglia mafiosa di Brancaccio, determinata a regolare i conti con l'uomo - l'imprenditore, il politico - da cui si è sentita "venduta" e tradita, dopo "le trattative" del 1993 (nascita di Forza Italia), gli impegni del 1994 (primo governo Berlusconi), le attese del 2001 (il Cavaliere torna a Palazzo Chigi dopo la sconfitta del '96), le più recenti parole del premier: "Voglio passare alla storia come il presidente del consiglio che ha distrutto la mafia" (agosto 2009).

Filippo Graviano

Mandate in avanscoperta, non contraddette o isolate dai boss, le "seconde file" della cosca - manovali del delitto e della strage al tritolo - hanno finora tirato dentro il Cavaliere e Marcello Dell'Utri come ispiratori della campagna di bombe, inedita per una mafia che in Continente non ha mai messo piede - nel passato - per uccidere innocenti. Fonti vicine alle inchieste (quattro, Firenze, Caltanissetta, Palermo, Milano) non nascondono però che raccogliere le fonti di prove necessarie per un processo sarà un'impresa ardua dall'esito oggi dubbio e soltanto ipotetico. Non bastano i ricordi di mafiosi che "disertano". Non sono sufficienti le parole che si sono detti tra loro, dentro l'organizzazione. Non possono essere definitive le prudenti parole di dissociazione di Filippo Graviano o il trasversale messaggio di Giuseppe che promette ai magistrati "una mano d'aiuto per trovare la verità". Occorrono, come li definisce la Cassazione, "riscontri intrinseci ed estrinseci", corrispondenze delle parole con fatti accertabili. Detto con chiarezza, sarà molto difficile portare in un'aula di tribunale l'impronta digitale di Silvio Berlusconi nelle stragi del 1993.

Questo affondo della famiglia di Brancaccio sembra - vagliato allo stato delle cose di oggi - soltanto un avvertimento che Cosa Nostra vuole dare alla letale quiete che sta distruggendo il potere dell'organizzazione e, soprattutto, uno scrollone a uno stallo senza futuro, che l'allontana dal recupero di risorse essenziali per ritrovare l'appannato prestigio.

Marcello Dell'Utri

Il denaro, i piccioli, in queste storie di mafia, sono sempre curiosamente trascurati anche se i mafiosi, al di là della retorica dell'onore e della famiglia, altro non hanno in testa. I Graviano, dice Gaspare Spatuzza, non sono un'eccezione. Nel loro caso, addirittura sono più lungimiranti. Nei primi anni novanta, Filippo e Giuseppe preparano l'addio alla Sicilia, "la dismissione del loro patrimonio" nell'isola. Spatuzza (16 giugno 2009): "Nel 1991, vendono, svendono il patrimonio. Cercano i soldi, [vogliono] liquidità e io non so come sono stati impiegati [poi] questi capitali, e per quali acquisizioni. Certo, non sono restati in Sicilia". I Graviano, a Gaspare, non appaiono più interessati "alle attività illecite". "Quando Filippo esce [dal carcere] nell'88 o nel 1989, esce con questa mania, questa grandezza imprenditoriale. I Graviano hanno già, per esempio, le tre Standa di Palermo affidate a un prestanome, in corso Calatafimi a Porta Nuova, in via Duca Della Verdura, in via Hazon a Brancaccio". Filippo - sempre lui - si sforza di far capire anche a uno come Spatuzza, imbianchino, le opportunità e anche i rischi di un impegno nella finanza. Le sue parole svelano che ha già a disposizione uomini, canali, punti di riferimento, competenze. "[Filippo] mi parla di Borsa, di Tizio, di Caio, di investimenti, di titoli. (...). Mi dice: [vedi Gaspare], io so quanto posso guadagnare nel settore dell'edilizia, ma se investo [i miei soldi] in Borsa, nel mercato finanziario, posso perdere e guadagnare, non c'è certezza. Addirittura si dice che a volte, se si benda una scimmia e le si fa toccare un tasto, può riuscire meglio di un esperto. Filippo è attentissimo nel seguire gli scambi, legge ogni giorno il Sole 24ore. Tiene in considerazione la questione Fininvest, d'occhio [il volume degli] investimenti pubblicitari. Mi dice [meraviglie] di una trasmissione come Striscia la notizia. Minimo investimento, massima raccolta [di spot], introiti da paura. "Il programma più redditizio della Fininvest", dice. Abbiamo parlato anche di Telecom, Fiat, Piaggio, Colaninno, Tronchetti Provera, ma la Fininvest era, posso dire, un terreno di sua pertinenza, come [se fosse] un [suo] investimento, come se fossero soldi messi da tasca sua, la Fininvest".

E' l'interrogatorio del 29 giugno 2009. Gaspare conclude: "Le [mie] dichiarazioni non possono bruciare l'asso [conservato nella manica] di Giuseppe" perché "il jolly" non ha nulla a che spartire con la Sicilia, con le stragi, con quell'orizzonte mafioso che è il solo paesaggio sotto gli occhi di Spatuzza. Un mese dopo (28 luglio 2009), i pubblici ministeri chiedono a Filippo in modo tranchant dove siano le sue ricchezze. Quello risponde: "Non ne parlo e mi dispiace non poterne parlare".

Ora, per raccapezzarci meglio in questo labirinto, si deve ricordare che i legami tra Marcello Dell'Utri e i paesani di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri - nella metà degli anni settanta - tra Silvio Berlusconi e la créme de la créme di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova (il mafioso, "che poteva chiedere qualsiasi cosa a Dell'Utri", siede alla tavola di Berlusconi anche nelle cene ufficiali, altro che "stalliere"). Nella scena che prepara la confessione di Gaspare Spatuzza, quel che è originale è l'esistenza di "un asso" che, giocato da Giuseppe Graviano, potrebbe compromettere il racconto mitologico dell'avventura imprenditoriale del presidente del consiglio.

Con quali capitali, Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero glorioso e ben protetto. Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari. Probabilmente capitali sottratti al fisco, espatriati, rientrati in condizioni più favorevoli, questo era il mestiere del conte Carlo Rasini. Ma è ancora nell'aria la convinzione che non tutta la Fininvest sia sotto il controllo del capo del governo.

Molte testimonianze di "personaggi o consulenti che hanno lavorato come interni al gruppo", rilasciate a Paolo Madron (autore, nel 1994, di una documentata biografia molto friendly, Le gesta del Cavaliere, Sperling&Kupfer), riferiscono che "sono [di Berlusconi] non meno dell'80 per cento delle azioni delle [22] holding [che controllano Fininvest]. Sull'altro 20 per cento, per la gioia di chi cerca, ci si può ancora sbizzarrire". Sembra di poter dire che il peso del ricatto della famiglia di Brancaccio contro Berlusconi può esercitarsi proprio tra le nebbie di quel venti per cento. In un contesto che tutti dovrebbe indurre all'inquietudine. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall'altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c'è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia, per sottrarsi a quel ricatto rovinoso, anche Berlusconi è chiamato a fare finalmente luce sull'inizio della sua storia d'imprenditore.

Il Cavaliere dice che si è fatto da sé correndo in salita senza capitali alle spalle. Sostiene di essere il proprietario unico delle holding che controllano Mediaset (ma quante sono, una buona volta, ventidue o trentotto?). E allora l'altro venti per cento di Mediaset di chi è? Davvero, come raccontano ora gli uomini di Brancaccio, è della mafia? È stata la Cosa Nostra siciliana allora a finanziarlo nei suoi primi, incerti passi di imprenditore? Già glielo avrebbero voluto chiedere i pubblici ministeri di Palermo che pure qualche indizio in mano ce l'avevano.

Quel dubbio non può essere trascurabile per un uomo orgoglioso di avercela fatta senza un gran nome, senza ricchezze familiari, un outsider nell'Italia ingessata delle consorterie e prepotente delle lobbies.

Berlusconi, in occasione del processo di primo grado contro Marcello Dell'Utri, avrebbe potuto liberarsi di quel sospetto con poche parole. Avrebbe potuto dire il suo segreto; raccontare le fatiche che ha affrontato; ricordare le curve che ha dovuto superare, anche le minacce che gli sono piovute sul capo. Poche parole con lingua secca e chiara. E lui, invece, niente. Non dice niente. L'uomo che parla ossessivamente di se stesso, compulsivamente delle sue imprese, tace e dimentica di dirci l'essenziale. Quando i giudici lo interrogano a Palazzo Chigi (è il 26 novembre 2002, guida il governo), "si avvale della facoltà di non rispondere". Glielo consente la legge (è stato indagato in quell'inchiesta), ma quale legge non scritta lo obbliga a tollerare sulle spalle quell'ombra così sgradevole e anche dolorosa, un'ombra che ipoteca irrimediabilmente la sua rispettabilità nel mondo - nel mondo perché noi, in Italia, siamo più distratti? Qual è il rospo che deve sputare? Che c'è di peggio di essere accusato di aver tenuto il filo - o, peggio, di essere stato finanziariamente sostenuto - da un potere criminale che in Sicilia ha fatto più morti che la guerra civile nell'Irlanda del Nord? Che c'è di peggio dell'accusa di essere un paramafioso, il riciclatore di denaro che puzza di paura e di morte? Un'evasione fiscale? Un trucco di bilancio? Chi può mai crederlo nell'Italia che ammira le canaglie. Per quella ragione, gli italiani lo avrebbero apprezzato di più, non di meno. Avrebbero detto: ma guarda quel bauscia, è furbissimo, ha truccato i conti, gabbato lo Stato e vedi un po' dove è arrivato e con quale ricchezza!

D'altronde anche per questo scellerato fascino, gli italiani lo votano e gli regalano la loro fiducia. E dunque che c'è di indicibile nei finanziamenti oscuri, senza padre e domicilio, che gli consentono di affatturarsi i primi affari?

E' giunto il tempo, per Berlusconi, di fare i conti con il suo passato. Non in un'aula di giustizia, ma en plein air dinanzi all'opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese.

© Riproduzione riservata (28 novembre 2009)

 

 

 

 

 

Dalla Banca Rasini a Spatuzza, i misteri mai chiariti

Il "giallo" sul 20% del capitale è anche in un libro pubblicato nel '95 dalla Mondadori

Quelle nebbie misteriose

sulle origini della Fininvest

di ATTILIO BOLZONI e GIUSEPPE D'AVANZO

Quelle nebbie misteriose sulle origini della Fininvest

IL RACCONTO di Repubblica di come i mafiosi di Brancaccio ritengano di avere "un asso nella manica" da giocare contro la Fininvest ha provocato le proteste di Marina Berlusconi, presidente della holding, e l'annuncio di azioni penali e civili di Mediaset. La protesta di Mediaset è temeraria.

Forse per un equivoco o soltanto per offrire ai giornali della Casa un titolo aggressivo, sostiene che, nell'inchiesta, ci sia scritto: "il 20 per cento di Mediaset appartiene alla mafia". È falso. Nessuno ha scritto una frase di questo genere. Nessuno poteva scriverla. Mediaset nasce come società quotata in Borsa soltanto nel 1996 mentre la cronaca dà conto, per la prima volta, degli interrogatori dei mafiosi di Brancaccio che raccontano vicende degli anni ottanta e primi anni novanta, comunque precedenti al 27 gennaio 1994, quando Filippo e Giuseppe Graviano sono stati arrestati a Milano. L'inchiesta si occupa di Fininvest, non di Mediaset. Di quel che i mafiosi riferiscono della Fininvest (detiene il 38,618 per cento di Mediaset).

Gaspare Spatuzza rivela ai pubblici ministeri di Firenze che "Filippo Graviano mi parlava come se Fininvest fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi da tasca sua". È una dichiarazione che ripropone la questione mai accantonata della provenienza dei capitali che hanno favorito l'avventura imprenditoriale di Silvio Berlusconi che di suo - è noto - risorse non ne aveva a disposizione. Per sintetizzare i dubbi che ancora ci sono su quell'inizio, Repubblica ha ritenuto di citare una breve frase dal libro di Paolo Madron, Le gesta del Cavaliere, Sperling&Kupfer: "Sono [di Berlusconi] non meno dell'80 per cento delle azioni delle holding che controllano Fininvest. Sull'altro 20 per cento, per la gioia di chi cerca, ci si può ancora sbizzarrire" (pag.137).

Contro questa frase muove oggi con indignazione e qualche sovrattono Marina Berlusconi. Lasciamo in un canto i suoi insulti. La presidente della Fininvest dichiara: "Il 100 per cento della Fininvest, come emerge incontrovertibilmente da tutti i documenti, appartiene alla nostra famiglia, a Silvio Berlusconi e ai suoi figli. Così è oggi e così è da sempre, non c'è mai stata una sola azione della Fininvest che non facesse capo alla famiglia Berlusconi". Se così è, perché la Fininvest non ha mai considerato calunnioso e diffamatorio il libro di Madron, diventato nel tempo anche autorevole direttore di Panorama Economy, periodico della Casa? Perché se ne duole soltanto oggi? Possibile che le sia sfuggito un libro pubblicato da una casa editrice dal 1995 di proprietà della Mondadori?

Di quel lavoro, qualcosa si sa. Paolo Madron è forse il solo giornalista che abbia avuto modo di incontrare e intervistare a lungo il conte Carlo Rasini, patron della Banca Rasini che mise a disposizione del giovane Berlusconi fidejussioni, prima, finanziamenti, poi. Madron riesce a incontrare Rasini nella sua casa ai Bastioni di Porta Venezia, a Milano. La conversazione è lunga, piacevole e assai intrigante.

Il conte banchiere racconta come "in realtà, le città giardino di Berlusconi sono servite a qualche famiglia milanese per far rientrare le valigie di soldi depositate a suo tempo in Svizzera". Ricorda di come, un giorno, Berlusconi "va da Rasini e gli chiede di appoggiarlo su quei suoi amici, clienti o meno della banca, che hanno portato fuori tanti soldi e che, se lui ci metterà una buona parola, potrebbero dargli fiducia". Rasini ne parla con il padre di Berlusconi, Luigi, che non vorrebbe. Ha paura che il figlio "resti schiacciato dalla sua ambizione". Ma Rasini, come ha fatto altre volte, non gli fa mancare il suo aiuto. "In fondo, quale migliore occasione per far tornare il denaro dal paese degli gnomi e farlo fruttare bello e pulito nelle mani di quel giovanotto che dove tocca guadagna?".

Ora Madron è a colazione da Carlo Rasini. Gli chiede conto di quei finanziamenti e il conte banchiere gli rivela che Berlusconi ha restituito, di quelle somme, soltanto l'ottanta per cento. "E l'altro venti?", chiede Madron. Rasini sorride e gli dice: "L'altro venti per cento non è stato restituito; so come sono andate le cose e a chi appartiene quel venti per cento, ma non glielo dirò". Marina Berlusconi, nel suo sdegno, sostiene ancora: "Anni e anni di indagini e perizie ordinate proprio dalla procura di Palermo si sono concluse con l'unico possibile risultato: (...) nell'azionariato Fininvest (...) non esistono zone d'ombra".

L'affermazione è imprudente, se si legge la sentenza della II sezione del Tribunale di Palermo che ha condannato Marcello Dell'Utri, braccio destro di Berlusconi. La consulenza dell'accusa, scrivono i giudici, nonostante la "parziale documentazione" messa a disposizione, "evidenzia la scarsa trasparenza o l'anomalia di molte operazioni effettuate dal gruppo Fininvest negli anni 1975-1984. [Questa conclusione] non ha trovato smentita dal consulente della difesa Dell'Utri", il professor Paolo Maurizio Iovenitti, docente alla Bocconi di Finanza mobiliare e Analisi strategiche e valutazioni finanziarie.

Iovenitti ha ammesso in aula che alcune operazioni erano "potenzialmente non trasparenti". Scrivono allora i giudici: "Non è stato possibile, da parte dei consulenti [del pubblico ministero e della difesa], risalire in termini di assoluta certezza e chiarezza all'origine, qualunque essa fosse, lecita od illecita, dei flussi di denaro investiti nella creazione delle holding Fininvest. (...). La consulenza Iovenitti non ha fatto chiarezza sulla vicenda in esame [e], pur avendo la disponibilità di tutta la documentazione esistente presso gli archivi della Fininvest, non ha contribuito a chiarire la natura di alcune operazioni finanziarie "anomale" e a evidenziare la correttezza delle risultanze societarie, contabili e bancarie del gruppo Fininvest".

Naturalmente sull'intera questione, avrebbe potuto far luce con autorevolezza Silvio Berlusconi. Si sa come andarono le cose. Interrogato il 26 novembre del 2002 a Palazzo Chigi, il presidente del consiglio si è "avvalso della facoltà di non rispondere". Così le perplessità sulle origini della fortuna di Berlusconi restano ancora vive. Ora che Cosa Nostra sembra ricattare il premier, sarebbe necessario illuminare quel che ancora oggi è oscuro, più che gridare a un "disegno politico di annientamento".

© Riproduzione riservata (29 novembre 2009)

 

 

 

 

 

I fatti oscuri

e il dovere di governare

di EUGENIO SCALFARI

TRA LE tante afflizioni che la "fin du règne" berlusconiana ha procurato al Paese c'è stato anche un crescente scontro tra le nostre massime istituzioni e soprattutto tra il presidente del Consiglio da un lato e il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale e la magistratura dall'altro. Nel momento più aspro del confronto anche il cosiddetto triangolo che raccorda il Quirinale con i presidenti delle due Camere ha dimostrato segni di scissura, con Gianfranco Fini solidamente schierato con il Capo dello Stato e Renato Schifani più sensibile ai "lai" del capo dell'Esecutivo.

Dobbiamo all'estrema prudenza di Giorgio Napolitano se queste tensioni si sono parzialmente attenuate, ma lo dobbiamo anche al vasto capitale di credibilità e di fiducia che il Quirinale raccoglie nella pubblica opinione, scoraggiando chiunque volesse impegnare un duello all'ultimo sangue con la nostra massima autorità di garanzia. Sarebbe un duello dall'esito assai prevedibile: gli italiani infatti hanno sempre avuto bisogno di esser rassicurati sulla propria qualità di "brava gente".

Questo riconoscimento sta loro a cuore più di qualunque altro; sta a cuore agli adulti come ai giovani, alle donne come agli uomini, agli abitanti delle province settentrionali e a quelli del Mezzogiorno. Si possono avere opinioni diverse su questa particolare fragilità dell'anima italiana, ma non sul fatto che esista. Con la conseguenza che, in un ipotetico duello tra il Quirinale e l'inquilino di Palazzo Chigi, la palma della vittoria andrebbe al primo e non al secondo.

Per Berlusconi metà degli italiani nutrono sentimenti di amorosa esaltazione; per Napolitano più del 70 per cento sente profondo rispetto e stima. A lui affiderebbero in custodia i figli e gli averi, all'altro no.

Del resto sentimenti analoghi e analoghe proporzioni del consenso gli italiani li hanno avuti per Carlo Azeglio Ciampi e per Sandro Pertini, per non citare che i più popolari e i più stimati. Questa è stata una fortuna non indifferente per il nostro Paese in una lunga e agitata fase di transizione che ha avuto luogo in tutta Europa e che, dopo oltre trent'anni, non è ancora finita.

Il duello dunque è scongiurato, almeno per ora. Ma ci si deve domandare perché Berlusconi non fa che riattivarlo al suo massimo quando tira in ballo i suoi personali interessi e quando è il primo a sapere che non avrà la forza di andare fino in fondo. Perché questa così invincibile coazione a ripetere? Non è un errore risollevare un tema che poi finirà assolutamente nel nulla?

***

Il presidente Napolitano l'altro ieri è stato lapidario: commentando i giudizi del capo del governo sui magistrati di Firenze che lui accusa di incitamento alla guerra civile, ha osservato che un governo cade soltanto nel momento in cui il Parlamento gli nega la fiducia; altre cause non sono previste. Fin quando la maggioranza che sostiene il governo continua ad appoggiarlo non ci può essere crisi. Se ci fosse, spetterebbe al Capo dello Stato di arbitrarne i passaggi.

Non si poteva interpretare più chiaramente la situazione e bloccare le fughe in avanti di Berlusconi da un lato e dei i suoi più queruli detrattori (che fanno senza accorgersene il suo gioco) dall'altro. Naturalmente sia l'uno che gli altri si sono riconosciuti nelle parole di Napolitano, piegandole ognuno ai suoi intendimenti e alle sue convenienze. È un curioso destino quello del Quirinale: tutti gli danno ragione pur continuando ciascuno a proseguire nel gioco al massacro sul quale campano.

Questo è vero per tutti, ma in modo particolare per il capo del governo. Berlusconi non può accettare che la discussione politica si sposti dai suoi personali interessi a quelli del Paese. Se l'interesse generale avesse un peso adeguato, sarebbe assai facile concentrarsi su di esso: basterebbe che il capo del governo avesse preso atto della sentenza della Corte sulla legge Alfano, che affrontasse i processi concordando con il Tribunale l'iter delle udienze e ne attendesse l'esito con sereno rispetto. Tre gradi di giudizio non sono pochi. Nel frattempo governasse.

Ma è proprio questo che lo spaventa: governare, con questi chiari di luna. Decidere chi paga il disastro economico tuttora in corso, quale sarà la strategia di uscita dalla crisi, come dovrà cambiare l'industria, le esportazioni, gli investimenti, la divisione internazionale del lavoro. Ed anche come cambieranno il Welfare, la scuola, la ricerca, la giustizia, la pubblica amministrazione.

È passato un anno e mezzo e ancora il governo si tiene a galla con i rifiuti smaltiti a Napoli e le casette consegnate all'Aquila, mentre i disoccupati aumentano in modo esponenziale ed ad ogni pioggia mezzo Paese resta col fiato sospeso per sapere questa volta a chi toccherà.

***

Intanto sono diventate di pubblico dominio le dichiarazioni di alcuni pentiti di mafia ai giudici che indagano in secondo grado di giurisdizione sul senatore Dell'Utri, co-fondatore di Forza Italia. I colleghi D'Avanzo e Bolzoni ne hanno ampiamente scritto con la compiutezza che il caso richiede. Farò a mia volta alcune osservazione nel merito.

Nei mesi scorsi si è a lungo parlato dei vizi privati del premier, diventati pubblici per sua scelta nel momento in cui negò l'esistenza di fatti documentati. Poi se ne continuò a parlare perché i suoi insostenibili dinieghi lo avevano messo in una situazione di ricattabilità assai difficile per chi occupa un'altissima posizione istituzionale.

Ora si profila un tema ancora più delicato: riguarda l'atteggiamento del presidente Berlusconi nei confronti dell'organizzazione mafiosa "Cosa Nostra". Che cosa dicono le carte fin qui disponibili di quel dossier? Oppure, chi fa il mestiere del giornalista, deve liquidare il problema giudicandolo un pettegolezzo senza interesse?

La risposta è evidente: la mafia, la camorra, la 'ndrangheta sono strutture criminali che hanno raggiunto in Italia dimensioni esorbitanti. Seminano il terrore in tutto il Mezzogiorno e altrove, partecipano a cartelli internazionali sulla produzione e distribuzione di droga, controllano decine di migliaia di "soldati", controllano anche istituzioni finanziarie, riciclano migliaia di milioni di euro e di dollari, svolgono in nero enormi transazioni. Si può far finta di non vedere? Non si deve accertare se eventuali contatti tra politica e criminalità siano esistiti ed esistano, oppure se si tratti di calunnie che meritano esemplari punizioni?

Dunque è lecito occuparsene. Anzi è doveroso. Giulio Andreotti ebbe alcuni contatti con le strutture criminali di allora. Li ebbe da politico che doveva fronteggiare una situazione di estrema gravità. Parlarono alcuni pentiti. La magistratura inquirente trovò riscontri. Si aprirono i processi. Nel frattempo il quadro era cambiato e gli interlocutori anche. Molti protagonisti caddero sul campo in quella guerra, alcuni pagando col sangue il loro coraggio, altri pagando col sangue la loro doppiezza.

Andreotti seguì tutte le udienze dei processi. Aveva un libretto sul quale scriveva i suoi appunti man mano che il dibattimento si svolgeva. Arrivava in aula per primo e usciva per ultimo dopo aver salutato il presidente e il pubblico ministero. Fu condannato con gravissime motivazioni. Poi, nei successivi gradi di giurisdizione, le sentenze furono riviste e ritoccate. Infine nell'ultimo passaggio fu assolto, in parte con formula piena e in parte con formula dubitativa. Il vero problema di Andreotti era di natura politica, non giudiziaria. Il giudizio politico restò diviso e tale resterà anche per gli storici che verranno. Quello giudiziario fa ormai parte delle materie giudicate. Ma resta che quell'uomo non fuggì dai processi e questo è un riconoscimento positivo che si è guadagnato.

Sapremo tra pochi giorni, alla ripresa del processo Dell'Utri di secondo grado, se le dichiarazioni dei pentiti indurranno i magistrati ad occuparsi anche del presidente del Consiglio oppure no. I pentiti di mafia parlano quasi sempre un gergo allusivo di non facile interpretazione, che può diventare più chiaro solo in dibattimento. Dare giudizi sul materiale disponibile è quindi azzardato. Ma ci sono aspetti che emergono con chiarezza.

1. I pentiti, nel caso specifico, sono personaggi di discreto livello ma non di primissimo piano. Del resto è sempre stato così salvo forse nel caso Buscetta.

2. I pentiti sono sempre stati messi al bando dai loro capi e da tutta la Cupola mafiosa. Definiti infami. Sottoposti ad intimidazioni continue e terribili. Infine, magari a distanza di molti anni, sono stati raggiunti e puniti con la morte. Nel caso attuale si sta invece verificando qualche cosa di estremamente anomalo: i capi mafiosi tirati in ballo dai pentiti non li hanno né sconfessati né intimiditi. Al contrario. Il loro pentimento è dunque condiviso? Oppure operano come esecutori di un disegno organizzato con i loro stessi capi?

3. Il piano, secondo le dichiarazioni dei pentiti, avrebbe come finalità effettiva quella di "riscuotere" dalla Fininvest il capitale e gli interessi, debitamente rivalutati, che sarebbero stati anticipati a quella società come fondi riciclati. I prestatori sarebbero appunto i fratelli Graviano della mafia del rione Brancaccio di Palermo.

4. È noto che la Fininvest fu fondata da alcune società Fiduciarie delle quali risultavano fondatori alcuni improbabili prestanome. Col passare degli anni alcune di tali Fiduciarie furono disvelate, risultando intestate a Berlusconi e ai suoi familiari. Ma le posizioni dettagliate non sono ancora completamente chiare.

5. Occorre tenere presente che Fininvest è il socio di controllo di Mediaset, di Mondadori, e di una serie assai ampia di società il cui valore ammonta attualmente a molte decine di miliardi di euro nonostante la caduta nelle capitalizzazioni dovuta alla crisi mondiale.

6. Si discute e si mette in dubbio da parte dei difensori di Berlusconi la validità di un reato come quello di concorso esterno in associazione mafiosa, non contemplato dal codice penale ma ormai da gran tempo legittimato da una serie costante e conforme di pronunce giurisprudenziali della Cassazione. Il reato di associazione esterna rappresenta (e chiunque ha un minimo di familiarità con questi problemi lo sa) il punto centrale di penetrazione della mafia nella società civile. L'estrema pericolosità dell'intera struttura mafiosa è dovuta al fatto che attraverso una zona grigia di personalità estranee alle organizzazioni criminali ma in contatto con esse la penetrazione si effettua e la mafia entra nei recessi più reconditi delle decisioni amministrative del pubblico potere. Per conseguenza ogni discorso sulla improprietà di un reato non previsto da un codice penale più che antiquato è priva di qualunque fondamento.

***

È importante mettere in luce questioni di questa delicatezza. È altrettanto chiaro che l'interesse ad un chiarimento di tali questioni non riguarda soltanto la democrazia italiana ma anche Silvio Berlusconi e la sua famiglia. Sicché risulta assai poco comprensibile il continuo sforzo non solo a far rinviare i processi ma ad abbreviarne la prescrizione. Quale chiarimento porta con sé un processo prescritto? Nessuno. Resterà per sempre ignota la zona oscura all'origine delle fortune imprenditoriali di Berlusconi.

Di tutto questo si parla non da quindici anni ma da molto prima. Berlusconi era ancora ben lontano dal voler entrare in politica, stava passando dal settore immobiliare nel quale aveva fatto fortuna al mondo delle Tv. Era pieno di soldi e con essi praticava audaci politiche di "dumping" sulle tariffe e i contratti pubblicitari. Lo sa bene Dell'Utri che era della partita insieme a Verdini. Ma lo sapevamo anche noi che all'epoca eravamo suoi concorrenti insieme alla Mondadori di Mario Formenton.

Ricordo queste cose perché è ormai entrato a far parte dei luoghi comuni il fatto che i processi contro di lui cominciano con il suo ingresso nella politica. In realtà le ipotesi criminose sono molto più antiche. Questa di cui ora si parla risale nientemeno che a trenta anni fa. La legge sul conflitto di interessi avrebbe offerto il destro di chiuderla. È colpa di una parte della sinistra se non fu fatta ma è responsabilità pienamente sua averla sempre testardamente impedita.

Ha ragione Napolitano quando dice che non è per via di processi che si elimina un avversario politico fin tanto che gli rimane la fiducia della maggioranza. Ma è altrettanto vero che gran parte di quella fiducia si verifica meglio alla luce di processi e sentenze che mettano in chiaro passaggi rimasti per troppi anni oscuri e inquietanti. Noi pensiamo che sia questa la buona democrazia. Intanto, il governo ha il diritto e il dovere di governare. Se cominciasse a farlo invece di restare perennemente in "surplace" sarebbe un buon risultato.

© Riproduzione riservata (29 novembre 2009)

 

 

 

 

Ad una svolta l'indagine di Firenze sulle stragi del 1993. Il nome

del presidente del Consiglio nei verbali degli uomini della cosca di Brancaccio

Mafia, perché i pentiti

accusano Berlusconi

di ATTILIO BOLZONI e GIUSEPPE D'AVANZO

Mafia, perché i pentiti accusano Berlusconi

Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri

NELL'INCHIESTA sui mandanti delle stragi del 1993 estranei a Cosa Nostra entrano Autore 1 e Autore 2. Gli ultimi interrogatori della procura di Firenze hanno una particolarità. Tecnica, ma comprensibilissima. I primi testimoni sono stati ascoltati in un'inchiesta a "modello 44", "notizie di reato relative a ignoti". Gli ultimi, a "modello 21", dunque "a carico di noti". I pubblici ministeri, nei documenti, non svelano i nomi dei nuovi indagati. Chi sono Autore 1 e 2? Secondo le indiscrezioni pubblicate già nei giorni scorsi dai quotidiani vicini al governo, sono Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri, la cui posizione era stata già archiviata il 3 maggio del 2002. Se così fosse, l'atto è dovuto. Non è un mistero (un migliaio di pagine sono state depositate, tre giorni fa, al processo di appello a Dell'Utri che si celebra a Palermo) che un nuovo testimone dell'accusa - Gaspare Spatuzza - indica nel presidente del consiglio e nel suo braccio destro i suggeritori della campagna stragista di sedici anni fa. Queste sono le "nuove" dai palazzi di giustizia, ma quel che si scorge è molto altro. L'intero fronte mafioso è minacciosamente in movimento. "La Cosa Nostra siciliana" si prepara a chiedere il conto a un Berlusconi che appare, a ragione, in tensione e sicuro che il peggio debba ancora venire.

Accade che, nella convinzione di "essere stata venduta" dopo "le trattative" degli anni Novanta, la famiglia di Brancaccio ha deciso di aggredire - in pubblico e servendosi di un processo - chi "non ha mantenuto gli impegni". Ci sono anche i messaggi di morte. Al presidente del Senato, Renato Schifani, siciliano di Palermo. O, come raccontano le "voci di dentro" di Cosa Nostra, avvertimenti che sarebbero piovuti su Marcello Dell'Utri. Un'intimidazione che ha - pare - molto impaurito il senatore e patron di Publitalia. Sono sintomi che devono essere considerati oggi un corollario della resa dei conti tra Cosa Nostra e il capo del governo. È il modo più semplice per dirlo. Perché di questo si tratta, del rendiconto finale e traumatico tra chi (Berlusconi) ha avuto troppo e chi (Cosa Nostra) ritiene di avere nelle mani soltanto polvere dopo molte promesse e infinita pazienza. Questo scorcio di 2009 finisce così per avere molti punti di contatto con il 1993 quando la Penisola è stata insanguinata dalle stragi: Roma, via Fauro (14 maggio); Firenze, via Georgofili (27 maggio); Milano, via Palestro (27 luglio); Roma, S. Giorgio al Velabro e S. Giovanni in Laterano (28 luglio); Roma, stadio Olimpico (23 gennaio 1994), attentato per fortuna fallito. Nel nostro tempo, non c'è tritolo e devastazione, ma l'annuncio di una "verità" che può essere più distruttiva di una bomba. Per lo Stato, per chi governa il Paese.

Per capire quel che accade, bisogna sapere un paio di cose. La famiglia mafiosa dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano di Brancaccio a Palermo è il nocciolo irriducibile - con i Corleonesi di Riina e Bagarella, con i Trapanesi di Matteo Messina Denaro (latitante) - di una Cosa nostra siciliana che oggi ha il suo "stato maggiore" in carcere e in libertà soltanto mischini senza risorse, senza influenza, senza affari, incapace anche di concludere uno sbarco di cocaina perché priva del denaro per acquistare un gommone. La seconda cosa che occorre ricordare è che gli "uomini d'onore" non hanno mai ammesso di essere un'"associazione" (Giovanni Bontate che, in un'aula di tribunale, usò con leggerezza il noi fu fatto secco appena libero).

I mafiosi non hanno mai accettato di discutere i fatti loro, anche soltanto di prendere in considerazione l'ipotesi di lasciar entrare uno sguardo estraneo negli affari della casa, figurarsi poi se gli occhi erano di magistrato. Apprezzati questi due requisiti "storici", si può comprendere meglio l'originalità di quanto accade, ora in questo momento, dentro Cosa Nostra. Tra Cosa Nostra e lo Stato (i pubblici ministeri). Tra Cosa Nostra e gli uomini (Berlusconi, Dell'Utri) che - a diritto o a torto, è tutto da dimostrare - i mafiosi hanno considerato, dal 1992/1993 e per quindici anni, gli interlocutori di un progetto che, dopo le stragi, avrebbe rimesso le cose a posto: i piccioli, il denaro, al sicuro; i "carcerati" o fuori o dentro, ma in condizioni di tenere il filo del loro business; mediocri e distratte politiche della sicurezza; lavoro giudiziario indebolito per legge; ceto politico disponibile, come nel passato, al dialogo e al compromesso con gli interessi mafiosi.

Sono novità che preparano una stagione nuova, incubano conflitti dolorosi e pericolosi. La campana suona per Silvio Berlusconi perché, nelle tortuosità che sempre accompagnano le cose di mafia, è evidente che il 4 dicembre - quando Gaspare Spatuzza, mafioso di Brancaccio, testimonierà nel processo di appello contro Marcello Dell'Utri - avrà inizio la resa dei conti della famiglia dei fratelli Graviano contro il capo del governo che, in agosto, ha detto di voler "passare alla storia come il presidente del Consiglio che ha sconfitto la mafia".

È un fatto sorprendente che i mafiosi abbiano deciso di parlare con i pubblici ministeri di quattro procure (Firenze, Caltanissetta, Palermo, Milano). Vogliono contribuire "alla verità". Lo dice, con le opportune prudenze, anche Giuseppe Graviano, "muto" da quindici anni. Quattro uomini della famiglia offrono una collaborazione piena. Sono Gaspare Spatuzza, Pietro Romeo, Giuseppe Ciaramitaro, Salvatore Grigoli. Spiegano, ricordano. Chiariscono come nacque, e da chi, l'idea delle stragi che non "avevano il dna di Cosa Nostra" e che "si portarono dietro quei morti innocenti". Indicano l'"accordo politico" che le giustificò e le rese necessarie "per il bene della Cosa Nostra". I nomi di Berlusconi e Dell'Utri saltano fuori in questo snodo.

Gaspare Spatuzza, 18 giugno 2009, ricostruisce la vigilia dell'attentato all'Olimpico: "Giuseppe Graviano mi ha detto "che tutto si è chiuso bene, abbiamo ottenuto quello che cercavamo; le persone che hanno portato avanti la cosa non sono come quei quattro crasti dei socialisti che prima ci hanno chiesto i voti e poi ci hanno venduti. Si tratta di persone affidabili". A quel punto mi fa il nome di Berlusconi e mi conferma, a mia domanda, che si tratta di quello di Canale 5; poi mi dice che c'è anche un paesano nostro e mi fa il nome di Dell'Utri (...) Giuseppe Graviano mi dice [ancora] che comunque bisogna fare l'attentato all'Olimpico perché serve a dare il "colpo di grazia" e afferma: ormai "abbiamo il Paese nelle mani"".

Pietro Romeo, 30 settembre 2009: "... In quel momento stavamo parlando di armi e di altri argomenti seri. [Fu chiesto a Spatuzza] se il politico dietro le stragi fosse Andreotti o Berlusconi. Spatuzza rispose: Berlusconi. La motivazione stragista di Cosa Nostra era quella di far togliere il 41 bis. Non ho mai saputo quali motivazioni ci fossero nella parte politica. Noi eravamo [soltanto degli] esecutori".

Salvatore Grigoli, interrogatorio 5 novembre 2009: "Dalle informazioni datemi (...), le stragi erano fatte per costringere lo Stato a scendere a patti (...) Dell'Utri è il nome da me conosciuto (...), quale contatto politico dei Graviano (...) Quello di Dell'Utri, per me, in quel momento era un nome conosciuto ma neppure particolarmente importante. Quel che è certo è [che me ne parlarono] come [del nostro] contatto politico". E' una scena che trova conferme anche in parole già dette, nel tempo. I ricordi di Giuseppe Ciaramitaro li si può scovare in un verbale d'interrogatorio del 23 luglio 1996: "Mi [fu] detto che bisognava portare questo attacco allo Stato e che c'era un politico che indicava gli obiettivi, quando questo politico avrebbe vinto le elezioni, si sarebbe quindi interessato a far abolire il 41 bis (...). Quando Berlusconi [è] stato presidente del Consiglio per la prima volta, nell'organizzazione erano tutti contenti, perché si stava muovendo nel senso desiderato e [si disse] che la proroga del 41 bis era stata solo per 'fintà in modo da eliminarlo del tutto alla scadenza".

Ci sarà, certo, chi dirà che non c'è nulla di nuovo. "Pentiti di mafia" che confermano testimonianza di altri "pentiti di mafia" ci sono stati ieri, ci sono oggi. La differenza, in questo caso, è come questi uomini che hanno saltato il fosso sono trattati dagli altri, da chi - in apparenza - resta ben saldo nelle sue convinzioni di mafioso, nel suo giuramento d'omertà. Li rispettano, sorprendentemente. Non era mai capitato. Non li considerano degli "infami". Accettano il dialogo con loro. Anche i più ostinati come Cosimo Lo Nigro e Vittorio Tutino.

Cosimo Lo Nigro, il 10 settembre del 2009, è seduto di fronte a Gaspare Spatuzza. Spatuzza gli dice che "ha gioito - oggi me ne vergogno - , ma ho gioito per Capaci perché quello [Falcone] rappresentava un nemico per Cosa Nostra... ma il nostro malessere inizia nel momento in cui ci spingiamo oltre (...) su Firenze, Roma, Milano...". Lo Nigro lo ascolta, senza contraddirlo. Spatuzza ricostruisce come andarono le cose durante la preparazione della strage all'Olimpico. Lo Nigro lo lascia concludere e gli dice: "Rispetto le tue scelte, ma ancora ti chiedo: sei sicuro di ciò che dici e delle tue scelte?". Vittorio Tutino accetta di essere interrogato dai Pm di Caltanissetta. Non fa scena muta. Parla. Il suo verbale d'interrogatorio deve essere interessante perché viene secretato.

Già queste mosse annunciano la nuova stagione, ma la dirompente novità è nei cauti passi dei due boss di Brancaccio, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Sono i più vicini a Salvatore Riina. Hanno guidato con mano ferma la loro "batteria" fino a progettare la strage - per fortuna evitata per un inghippo nell'innesco dell'esplosivo - di un centinaio di carabinieri all'Olimpico il 23 gennaio del 1994. Sono in galera da quindici anni. Hanno studiato (economia, matematica) in carcere. Dal carcere si sono curati dell'educazione dei loro figli affidati ai migliori collegi di Roma e di Palermo e ora sembrano stufi, stanchi di attendere quel che per troppo tempo hanno atteso. Spatuzza racconta che, alla fine del 2004, Filippo Graviano, 48 anni, sbottò: "Bisogna far sapere a mio fratello Giuseppe che se non arriva niente da dove deve arrivare, è bene che anche noi cominciamo a parlare con i magistrati". La frase è eloquente. C'è un accordo. Chi lo ha sottoscritto, non ha rispettato l'impegno. Per cavarsi dall'angolo, c'è un solo modo: dissociarsi, collaborare con la giustizia, svelare le responsabilità di chi - estraneo all'organizzazione - si è tirato indietro. Accusarlo può essere considerato "un'infamia"?

Filippo Graviano, il 20 agosto 2009, accetta il confronto con Gaspare Spatuzza. C'è una sola questione da discutere. Quella frase. Ha detto che "se non arriva niente da dove deve arrivare, è bene che anche noi cominciamo a parlare con i magistrati"? La smentita di Filippo Graviano è ambigua. In Sicilia dicono: a entri ed esci. Dice Filippo a Gaspare: "Io non ho mai parlato con ostilità nei tuoi riguardi. I discorsi che facevamo erano per migliorare noi stessi. Già noi avevamo allora un atteggiamento diverso, già volevamo agire nella legalità. Noi parlavamo di un nostro futuro in un'altra parte d'Italia". La premessa è utile al boss per negare ma con garbo: "Mi dispiace contraddire Spatuzza, ma devo dire che non mi aspetto niente adesso e nemmeno nel passato, nel 2004. Mi sembra molto remoto che possa avere detto una frase simile perché, come ho detto, non mi aspetto niente da nessuno. Avrei cercato un magistrato in tutti questi anni, se qualcuno non avesse onorato un presunto impegno".

Filippo non ha timore di pronunciare per un boss parole tradizionalmente vietate, "legalità", "cercare magistrati". Si spinge anche a pronunciarne una, indicibile: "dissociazione". Dice, il 28 luglio 2009: "Da parte mia è una dissociazione verso le scelte del passato (...). Oggi sono una persona diversa. Faccio un esempio. Nel mio passato, al primo posto, c'era il denaro. Oggi c'è la cultura, la conoscenza. (...) Io non rifarei le scelte che ho fatto".

Anche Giuseppe Graviano, 46 anni, il più duro, il più autorevole (i suoi lo chiamano "Madre natura" o "Mio padre"), incontra i magistrati, il 28 luglio 2008. E' la prima volta che risponde a una domanda dal tempo del suo arresto, il 27 gennaio 1993. Dice: "Io sono disposto a fare i confronti, con coloro che indico io e che ritengo sappiano la verità. Sono disposto a un confronto con Spatuzza ma cosa volete che sappia Spatuzza che non sa niente, faceva l'imbianchino, sarà ricattato da qualcuno". Sembra che alzi un muro e che il muro sia insuperabile, ma non è così. Quando gli tocca parlare delle stragi del 1993, ragiona: "Perché non mi avete fatto fare il confronto con i pentiti in aula, quando l'ho chiesto? Così una versione io, una versione loro e poi c'è il magistrato [che giudica]: voi ascoltavate e potevate decidere chi stava dicendo la verità. La verità, [soltanto] la verità di come sono andati i fatti.. . io vi volevo portare alla verità. E speriamo che esca la verità veramente. Ve ne accorgerete del danno che avete fatto. Se noi dobbiamo scoprire [la verità], io posso dare una mano d'aiuto. Io dico che uscirà fuori la verità delle cose. Trovate i veri colpevoli, i veri colpevoli. Si parla sempre di colletti bianchi, colletti grigi, colletti e sono sempre innocenti [questi, mentre] i poveri disgraziati...".

Gli chiedono i magistrati: "Lei sa che ci sono colletti bianchi implicati in queste storie?". Risponde: "Io non lo so. Poi stiamo a vedere se... qualcuno ha il desiderio di dirlo che lo sa benissimo... Ma io non posso dire la mia verità così. Perché non serve a niente. Invece, ve la faccio dire, io, [da] chi sa la verità".

Ora bisogna mettere in ordine quel che si intuisce nelle mosse di Cosa Nostra. I "pentiti" non sono maledetti da chi, in teoria, stanno tradendo. Al contrario, ricevono attestati di solidarietà, segnali di rispetto, addirittura cenni di condivisione per una scelta che alcuni non hanno ancora la forza di decidere. E' più che un'impressione: è come se chi offre piena collaborazione alla magistratura (Spatuzza, Romeo, Grigoli) abbia l'approvazione di chi governa la famiglia (Giuseppe e Filippo Graviano) e ancora oggi può essere considerato al vertice di un'organizzazione che, in carcere, custodisce l'intera memoria della sua storia, delle sue connessioni, degli intrecci indicibili e finora non detti, degli interessi segreti e protetti. In una formula, il peso di un ricatto che viene offerto con le parole e i ricordi delle "seconde file" in attesa che le "prime" possano valutare quel che accade, chi e come si muove.

Ecco perché ha paura Berlusconi. Quegli uomini della mafia non conoscono soltanto "la verità" delle stragi (che sarà molto arduo rappresentare in un racconto processuale ben motivato), ma soprattutto le origini oscure della sua avventura imprenditoriale, già emerse e documentate dal processo di primo grado contro Marcello Dell'Utri (condannato a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa). Di denaro, di piccioli minacciano allora di parlare i Graviano e gli uomini della famiglia di Brancaccio. Dice Spatuzza: "I Graviano sono ricchissimi e il loro patrimonio non è stato intaccato di un centesimo. Hanno investito al Nord e in Sardegna e solo così mi spiego perché durante la latitanza sono stati a Milano e non a Brancaccio. È anomalo, anomalissimo". Se a Milano - dice il testimone - Filippo e Giuseppe si sentivano più protetti che nella loro borgata di Palermo vuol dire che chi li proteggeva a Milano era più potente e affidabile della famiglia.

© Riproduzione riservata (27 novembre 2009)

 

 

 

 

 

 

 

 

L'INCHIESTA/2

Il Cavaliere e la favola dei 106 processi

di GIUSEPPE D'AVANZO

SI dice: il processo sia "breve" e se questa rapidità cancella i processi di Silvio Berlusconi sia benvenuta perché contro quel poveruomo, dopo che ha scelto la politica (1994), si è scatenato un "accanimento giudiziario" con centinaia di processi.

Al fondo della diciottesima legge ad personam, favorevole al capo del governo c'è soltanto uno schema comunicativo, fantasioso, perché privo di ogni connessione con la realtà. È indiscutibile che un giudizio debba avere una ragionevole durata per non diventare giustizia negata (per l'imputato innocente, per la vittima del reato). "Processo breve", però, è soltanto un'efficace formula di marketing politico-commerciale. Nulla di più. Per credere che dia davvero dinamismo ai dibattimenti, bisogna dimenticare che le nuove regole (durata di sei anni o morte del processo) sono un imbroglio, se non si migliorano prima codice, procedura, organizzazione giudiziaria. Sono una rovina per la credibilità del "sistema Italia", se definiscono "non gravi" i reati economici come la corruzione. Con il tempo, la ragione privatissima del disegno di legge è diventata limpida anche per i creduloni, e i corifei del sovrano ora ammettono in pubblico che la catastrofica riforma è stata pensata unicamente per liberare Berlusconi dai suoi personali grattacapi giudiziari. L'effrazione di ogni condizione generale e astratta della legge deve essere sostenuta - per conformare la mente del "pubblico" - da un secondo soundbite, quella formuletta breve e convincente che, come una filastrocca, deve essere recitata in tv, secondo gli esperti, al ritmo di 6,5 sillabe al secondo, in non più di 12/15 secondi. Diffusa, ripetuta e disseminata dai guardiani vespi e minzolini dei flussi di comunicazione, suona così: Silvio Berlusconi ha il diritto di proteggersi - sì, anche con una legge ad personam - perché ha dovuto subire centinaia di processi dopo la sua "discesa in campo", spia di un protagonismo abusivo e tutto politico della magistratura che indebolisce la democrazia italiana.

Bene, ma è vero che Berlusconi è stato "aggredito" dalle toghe soltanto dopo aver scelto la politica? E quanto è stato "aggredito"? Davvero lo è stato con "centinaia di processi" tutti conclusi con un nulla di fatto? Domande che meritano parole factual, se si vuole avere un'opinione corretta anche di questo argomento sbandierato da tempo e accettato senza riserve anche dalle menti più ammobiliate.

Il numero dei processi di Berlusconi è un mistero misericordioso se si ascolta il presidente del consiglio. Dice il Cavaliere: "In assoluto [sono] il maggior perseguitato dalla magistratura in tutte le epoche, in tutta la storia degli uomini in tutto il mondo. [Sono stato] sottoposto a 106 processi, tutti finiti con assoluzioni e due prescrizioni" (10 ottobre 2009). Nello stesso giorno, Marina Berlusconi ridimensiona l'iperbole paterna: "Mio padre tra processi e indagini è stato chiamato in causa 26 volte. Ma a suo carico non c'è una sola, dico una sola, condanna. E se, come si dice, bastano tre indizi per fare una prova, non le sembra che 26 accuse cadute nel nulla siano la prova provata di una persecuzione?" (Corriere, 10 ottobre). Qualche giorno dopo, Paolo Bonaiuti, portavoce del premier, pompa il computo ancora più verso l'alto: "I processi contro Berlusconi sono 109" (Porta a porta, 15 ottobre). Lo rintuzza addirittura Bruno Vespa che avalla i numeri di Marina: "Non esageriamo, i processi sono 26".

Ventisei, centosei o centonove, e quante assoluzioni? In realtà, i processi affrontati dal Cavaliere come imputato sono sedici. Quattro sono ancora in corso: corruzione in atti giudiziari per l'affare Mills; istigazione alla corruzione di un paio di senatori (la procura di Roma ha chiesto l'archiviazione); fondi neri per i diritti tv Mediaset (in dibattimento a Milano); appropriazione indebita nell'affare Mediatrade (il pm si prepara a chiudere le indagini).

Nei dodici processi già conclusi, in soltanto tre casi le sentenze sono state di assoluzione. In un'occasione con formula piena per l'affare "Sme-Ariosto/1" (la corruzione dei giudici di Roma). Due volte con la formula dubitativa del comma 2 dell'art. 530 del Codice di procedura penale che assorbe la vecchia insufficienza di prove: i fondi neri "Medusa" e le tangenti alla Guardia di Finanza, dove il Cavaliere è stato condannato in primo grado per corruzione; dichiarato colpevole ma prescritto in appello grazie alle attenuanti generiche; assolto in Cassazione per "insufficienza probatoria". Riformato e depenalizzato il falso in bilancio dal governo Berlusconi, l'imputato Berlusconi viene assolto in due processi (All Iberian/2 e Sme-Ariosto/2) perché "il fatto non è più previsto dalla legge come reato". Due amnistie estinguono il reato e cancellano la condanna inflittagli per falsa testimonianza (aveva truccato le date della sua iscrizione alla P2) e per falso in bilancio (i terreni di Macherio). Per cinque volte è salvo con le "attenuanti generiche" che (attenzione) si assegnano a chi è ritenuto responsabile del reato. Per di più le "attenuanti generiche" gli consentono di beneficiare, in tre casi, della prescrizione dimezzata che si era fabbricato come capo del governo: "All Iberian/1" (finanziamento illecito a Craxi); "caso Lentini"; "bilanci Fininvest 1988-'92"; "fondi neri nel consolidato Fininvest" (1500 miliardi); Mondadori (l'avvocato di Berlusconi, Cesare Previti, "compra" il giudice Metta, entrambi sono condannati).

È vero, l'inventario annoia ma qualcosa ci racconta. Ci spiega che senza amnistie, riforme del codice (falso in bilancio) e della procedura (prescrizione) affatturate dal suo governo, Berlusconi sarebbe considerato un "delinquente abituale". Anche perché, se non avesse corrotto un testimone (David Mills, già condannato in appello, lo protegge dalla condanna in due processi), non avrebbe potuto godere delle "attenuanti generiche" che lo hanno reso "meritevole" della prescrizione che egli stesso, da presidente del consiglio, s'è riscritto e accorciato.

L'imbarazzante bilancio giudiziario non liquida un lamento che nella "narrativa" di Berlusconi è vitale: fino a quando nel 1994 non mi sono candidato al governo del Paese, la magistratura non mi ha indagato. Se non si lasciano deperire i fatti, anche questo ossessivo soundbite non è altro che l'alchimia di un mago, pubblicità. Berlusconi viene indagato per traffico di stupefacenti, undici anni prima della nascita di Forza Italia. Nel 1983 (l'accusa è archiviata). È condannato in appello (e amnistiato) per falsa testimonianza nel 1989, venti anni fa. Nel 1993 - un anno prima della sua prima candidatura al governo - la procura di Torino già indaga sul Milan e i pubblici ministeri di Milano sui bilanci di Publitalia. Al di là di queste date, è documentato dagli atti giudiziari che Silvio Berlusconi e il gruppo Fininvest finiscono nei guai non per un assillo "politico" dei pubblici ministeri, ma per le confessioni di un ufficiale corrotto del Nucleo regionale di polizia tributaria di Milano. Ammette che le "fiamme gialle" hanno intascato 230 milioni di lire per chiudere gli occhi nelle verifiche fiscali di Videotime (nel 1985), Mondadori (nel 1991), Mediolanum Vita (nel 1992), tutti controlli che precedono l'avventura politica dell'Egoarca. Accidentale è anche la scoperta dei fondi esteri della Fininvest. Vale la pena di ricordarlo. Uno dei prestanomi di Bettino Craxi, Giorgio Tradati, consegna a Di Pietro i tabulati del conto "Northern Holding". Li gestisce per conto di Craxi. Sul conto affluisce, senza alcun precauzione, il denaro che il gotha dell'imprenditoria nazionale versa al leader socialista.

C'è una sola eccezione. Un triplice versamento non ha nome e firma. Sono tre tranche da cinque miliardi di lire che un mittente, generoso e sconosciuto, invia nell'ottobre 1991 a Craxi. "Fu Bettino a annunciarmi l'arrivo di quel versamento", ricorda Tradati. Le rogatorie permettono di accertare che i miliardi, "appoggiati" su "Northern Holding", vengono dal conto "All Iberian" della Sbs di Lugano. Di chi è "All Iberian"? Per mesi, i pubblici ministeri pestano acqua nel mortaio fino a quando un giovane praticante dello studio Carnelutti, un prestigioso studio legale milanese, confessa al pool di avere fatto per anni da prestanome per conto della Fininvest in società create dall'avvocato londinese David Mackenzie Mills.

Così hanno inizio le rogne che ancora oggi Berlusconi deve grattarsi. Il caso, la fortuna, la sfortuna, fate voi. Tirando quell'esile filo, saltano fuori 64 società off-shore del "gruppo B di Fininvest very secret", create venti anni fa e alimentate prevalentemente con fondi provenienti dalla "Silvio Berlusconi Finanziaria". È in quell'arcipelago che si muovono le transazioni strategiche della Fininvest che, come documenterà la Kpmg, consentono a Berlusconi e al suo gruppo di "alterare le rappresentazioni di bilancio"; "esercitare un controllo con fiduciari in emittenti tv che le normative italiane estere non avrebbero permesso"; "detenere quote di partecipazione in società quotate senza informare la Consob e in società non quotate per interposta persona"; "erogare finanziamenti"; "effettuare pagamenti"; "intermediare tra società del gruppo l'acquisizione dei diritti televisivi"; "ricevere fondi da terzi per finanziare operazioni di Fininvest effettuate per conto di terzi". È il disvelamento non di un episodio illegale, ma di un metodo illegale di lavoro, dello schema imprenditoriale illecito che è a fondamento delle fortune di Silvio Berlusconi. Per dirla tutta, e con il senno di poi, sedici processi per venire a capo di quel grumo di illegalità oggi appaiono addirittura un numero modesto. Nel "group B very discreet della Fininvest" infatti si costituiscono fondi neri (quasi mille miliardi di lire). Transitano i 21 miliardi che rimunerano Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi in Cct destinati alla corruzione del Parlamento che approva quella legge; la proprietà abusiva di Tele+ (viola le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le "fiamme gialle"); il controllo illegale dell'86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l'acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma (gli consegnano la Mondadori); gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente. E c'è altro che ancora non sappiamo e non sapremo?

Tutti i processi che Berlusconi ha affrontato e deve ancora affrontare nascono per caso non per un deliberato proposito. Un finanziere che confessa, un giovane avvocato che si libera del peso che incupisce i suoi giorni consentono di mettere insieme indagine dopo indagine, ineluttabili per l'obbligatorietà dell'azione penale, una verità che il capo del governo non potrà mai ammettere: il suo successo è stato costruito con l'evasione fiscale, i bilanci truccati, la corruzione della politica, della Guardia di Finanza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa. Per Berlusconi, la banalizzazione della sua storia giudiziaria, che egli traduce e confonde in guerra alla (o della) magistratura, non è il conflitto della politica contro l'esercizio abusivo del potere giudiziario, ma il disperato e personale tentativo di cancellare per sempre le tracce del passato e di un metodo inconfessabile. Con quali tecniche Berlusconi ha combattuto, e ancora affronterà, questa contesa è un'altra storia.

© Riproduzione riservata (20 novembre 2009)

L'UNITA'

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2009-11-29

Procura Firenze: Berlusconi non è indagato

Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri "non sono indagati" dalla Procura di Firenze nell'ambito delle nuove inchieste sulle stragi di mafia del '93.

Lo ha detto il procuratore capo di Firenze Giuseppe Quattrocchi, rispondendo a una domanda dei giornalisti.

Ai cronisti che gli facevano notare che questa mattina il quotidiano Libero affermava che Berlusconi sarebbe indagato dalla procura di Firenze, Quattrocchi ha risposto che: "Quello che dice Libero non è vero". Infatti, ha precisato il magistrato, "non ci sono iscrizioni di questo tipo".

"Stiamo rivisitando tutto quello che riguarda le stragi - ha continuato - la riapertura dell'inchiesta riguarda il contesto complessivo della vicenda". "A Palermo - ha aggiunto - abbiamo depositato qualcosa che attiene a fatti e situazioni sui quali la corte d'Appello è chiamata a pronunciare una sentenza". A chi gli chiedeva se, delle quattro inchieste archiviate in passato a Firenze, fosse stata riaperta quella su Berlusconi e Dell'Utri, Quattrocchi ha risposto che "una riapertura non fa differenza fra vecchio e nuovo. I fatti sono gli stessi", aggiungendo che la procura "ha rimesso le mani sui problemi delle stragi.

Una volta che si riprende il discorso, non si possono fare distinzioni: nella rivalutazione di quello che è accaduto, se si cercano altre responsabilità, il discorso è globale. Quando abbiamo riaperto l'inchiesta, tutto è confluito in una procedura contro ignoti. Poi il 'modellò cambia nel momento in cui ci accorgiamo che possono emergere una o più situazioni soggettive nelle quali si possono individuare uno o più concorrenti".

28 novembre 2009

 

 

Berlusconi: "Mafia? Me ne sono occupato solo per le storielle"

Berlusconi esorcizza la grande paura: che gli arrivi da Firenze e Palermo un avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa dopo le dichiarazioni del pentito Spatuzza. Il portavoce Bonaiuti ha smentito le voci, peraltro diffuse dai giornali vicini al premier, secondo cui il presidente del consiglio sarebbe indagato, ma Berlusconi ci è tornato su a modo suo: "C'è qualcuno che dice che mi sono molto occupato di mafia a partire dal '92: è vero, sulla mafia ho raccontato molte storielle...".

Silvio Berlusconi riferisce questa battuta ad alcuni presenti alla cena a Villa Madama con gli imprenditori del 'made in Italy'. Il premier ne ha quindi raccontata una in dialetto siciliano: "C'è un bambino che chiede al papà: papà, è vero che è morto Einstein? E il padre ha risposto: troppo sapeva!".

Intanto il portavoce Bonaiuti ha detto del possibile avviso di garanzia: "Non ce ne sono, è escluso, è facile smentire una cosa che non c'è e non esiste".

27 novembre 2009

 

 

 

Il suo incubo si chiama "Proc. n°11531/09-2"

Una data e un numero tolgono il sonno al premier e al suo staff di legali. Il numero è quello del procedimento penale 11531/09-2 della procura antimafia di Firenze. La data è il 4 dicembre 2009. Per uno di quegli strani scherzi che il destino ogni tanto si diverte ad organizzare, quel giorno, il prossimo venerdì, potrebbero, essere chiarite varie questioni che hanno a che fare con la tenuta di questa legislatura e con l’immagine pubblica del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

A Milano riprenderà ufficialmente il processo Mills, poche udienze per sapere se il Premier è colpevole o meno di corruzione in atti giudiziari. Nell’aula bunker di Torino la Corte d’Appello di Palermo in trasferta ascolterà il boss pentito Gaspare Spatuzza, prima linea operativa di Cosa Nostra fino all’arresto nel 1997, reggente del mandamento di Brancaccio tra il 1995 e il 1997, killer di don Puglisi, autore delle stragi che Cosa Nostra ha voluto firmare in continente nel 1993, da Roma a Milano passando per Firenze, la più grave. Pedegree criminale di altissimo profilo. Così come il livello di conoscenza delle strategie di Cosa Nostra. Per evidenti motivi di sicurezza è stato deciso che Spatuzza è preferibile muoverlo su Torino anzichè su Palermo. Il pg Antonino Gatto, pubblica accusa nel processo d’Appello in cui Dell’Utri è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa (9 anni la condanna in I°), il 23 novembre ha chiesto e ottenuto di riaprire il dibattimento - già arrivato alle arringhe - per poter interrogare Spatuzza.

E ascoltare dalla sua voce quello che il boss da quattordici mesi sta raccontando al procuratore Antimafia Piero Grasso, al procuratore di Firenze Pino Quattrocchi e ai sostituti Nicolosi e Crini. Centinaia di pagine di verbale che stanno riscrivendo la storia delle stragi (deve essere in parte rifatto il processo per via D’Amelio) e degli intrecci tra Cosa Nostra e politica. E’ questa la parte che da settimane - dal 24 novembre quando Firenze ha dovuto trasmettere a Palermo gli atti fino a quel momento gestiti in relativo silenzio - toglie il sonno al premier e al suo staff di legali. Spatuzza racconta che Cosa Nostra nel 1993 aveva trovato "nuovi referenti politici", che c’era un rapporto "diretto, senza mediatori" con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Ha spiegato come il boss Giuseppe Graviano nel ‘93, poco dopo le bombe a Firenze, Milano e Roma, liquidasse i dubbi di Spatuzza su quella strategia sanguinosa: "Io ne capisco di politica, tu no".

E come, nel gennaio 1994, sempre Giuseppe dicesse: "Abbiamo ottenuto tutto quello che cercavamo, abbiamo il paese in mano, grazie a Berlusconi e al nostro compaesano Dell’Utri". Tra luglio e ottobre Giuseppe e Filippo Graviano, messi a confronto con Spatuzza, non lo hanno confermato. Ma hanno accettato il confronto. Nel codice di Cosa Nostra vale moltissimo. Le conferme alle dichiarazioni di Spatuzza sono arrivate da altri pentiti doc come Romeo e Grigoli. Ora l’attesa è massima per quello che U tignusù dirà nell’aula bunker di Torino. Il Presidente del Consiglio ci scherza su: "Di mafia mi sono occupato solo per raccontare storielle". Il sottosegretario Paolo Bonaiuti smentisce che "siano in arrivo avvisi di garanzia da Palermo o da Firenze". Tutto vero. Infatti quello che toglie il sonno è quel fascicolo n°11531/09-2 della procura fiorentina che prevede un registro degli indagati. Fu aperto anche nel 1998. Erano iscritti " Autore Uno" e "Autore Due". L’ipotesi era concorso in strage.

28 novembre 2009

 

 

 

 

Berlusconi: "Vietato parlare di mafia". Placido: "Le stragi erano riprese cinematografiche?"

"Se trovo chi ha fatto le nove serie de La Piovra e chi scrive libri sulla mafia che ci fanno fare una bella figura lo strozzo". Lo afferma il premier Silvio Berlusconi, intervenendo ad un convegno organizzato dall'Enac all'aeroporto di Olbia. Le voci sull'ipotesi di un coinvolgimento del premier Silvio Berlusconi nelle stragi di mafia sono accuse infondate ed infamanti. Lo avrebbe detto Silvio Berlusconi secondo quanto riferito dopo il suo incontro con i giovani del Pdl di Olbia.

Non capisco, avrebbe aggiunto Berlusconi, come si fanno a pensare cose del genere e quali sarebbero state le mie motivazioni. Il riferimento è al presunto coinvolgimento del premier in fatti che potrebbero configurare il concorso esterno di associazione mafiosa.

Ma poco dopo, il premier non ha resistito al fascino della battuta e ha di nuovo ironizzato sui suoi rapporti con Cosa Nostra: "Tu Vito hai parlato di un problema con la mafia, ma che problema c'è? Ci sono io..." ha detto al presidente dell'Enac Vito Riggio.

Poi, sempre il premier, ha continuato a scherzare: "Ti inviterei a cena ma dopo i soldi che mi ha chiesto la mia signora per il divorzio credo che il menù sia scarso". Così, con un sorriso, Silvio Berlusconi si rivolge a Fabrizio Palenzona, presidente di Assoaeroporti presente al convegno organizzato dall'Enac nello scalo sardo.

Si andrà velocemente sulla riforma della giustizia. È quanto avrebbe assicurato il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, incontrando i giovani del Pdl del circolo di Olbia-Tempio, prima del suo intervento al convegno organizzato dall'Enac. Si sa, avrebbe proseguito il premier, che la maggior parte della magistratura è di sinistra e cerca sempre un pretesto per dovermi attaccare. È dalla nascita di Forza Italia che provano a farlo, avrebbe aggiunto, insistendo sulla necessità di arrivare alla separazione tra pm e giudice.

Su Berlusconi e mafia (ieri il premier aveva detto di essersene occupato solo per le barzellette) è ovviamente scoppiata l'ennesima polemica. Anna Finocchiaro: "Non entro nel merito di inchieste giudiziarie e di avvisi di garanzia al Premier per altro annunciati dai quotidiani vicini al Silvio Berlusconi. Voglio solo dire che il problema della mafia e della criminalità organizzata è un problema molto serio. Non si può pensare di risolvere tutto con battute, barzellette o mostrando la volontà di mettere la sordina al problema. Non vorrei che alla fine di tutto - aggiunge la Finocchiaro - questo qualcuno tornasse a dire che la mafia non esiste". "Dalle parole della Finocchiaro appare la tentazione del Pd di risolvere la lotta politica per via giudiziaria" commenta il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Paolo Bonaiuti.

Caustico Michele Placido: Il premier dichiara che strozzerebbe chi ha scritto e fatto film sulla mafia? "Si dovrebbe autostrozzare perché Il capo dei capi (una fiction televisiva su Salvatore Riina, ndr) è un prodotto di Canale 5. Firmato: il Commissario Cattani".

"Ha ragione Berlusconi - ironizza lo storico protagonista delle prime quattro serie della Piovra, contattato dall'Adnkronos - la mafia non esiste: gli attentati a Falcone e Borsellino, a Firenze, Milano e Torino erano solo riprese cinematografiche dirette da Damiano Damiani, Florestano Vancini e Luigi Perelli (alcuni tra i registi della serie, ndr)". "Questa volta mi pare il premier Berlusconi abbia fatto un po' autogol - aggiunge - perché La Piovra è roba di tanti anni fa, mentre le fiction tv più recenti sulla mafia, da Il capo dei capi a quelle su Falcone e Borsellino le ha fatte suo figlio per Mediaset".

28 novembre 2009

il SOLE 24 ORE

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2009-11-29

Mafia, la procura di Firenze:

"Berlusconi e Dell'Utri non sono indagati"

28 novembre 2009

SILVIO BERLUSCONI A MONTECATINI, PER LA RIUNIONE DEI CIRCOLI DEL BUONGOVERNO DI MARCELLO DELL'UTRI (Nov, 2007 Olycom)

IL PUNTO / Un freno ai magistrati e una garanzia offerta a Berlusconi (di Stefano Folli)

Berlusconi ironizza sulle accuse di mafia: "Barzellette"

Palamara (Anm): "Non siamo in guerra"

Il Csm contro Berlusconi: "Acquisiremo le sue dichiarazioni sui giudici"

 

Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri "non sono indagati"per mafia a Firenze: lo sottolinea Giuseppe Quattrocchi, procuratore capo della città toscana, smentendo le notizie apparse su alcuni quotidiani di oggi. La nuova inchiesta della procura di Firenze sulle stragi del '93-'94 riguarda, conferma Quattrocchi, uno degli esecutori. "Era rimasto fuori qualcuno, stiamo cercando di individuarlo, e abbiamo buonissime speranze di farlo", aggiunge il procuratore. Dalla procura di Palermo, invece, nessuno conferma nè smentisce l'iscrizione nel registro degli indagati di Berlusconi e Dell'Utri. "Capisco perché da Firenze abbiano smentito la notizia: era stato scritto che li avevano iscritti loro. Su di noi nessuno l'ha scritto e quindi non diciamo niente", spiega invece il procuratore aggiunto del capoluogo siciliano, Antonio Ingroia.

Il presidente del Consiglio da Olbia, incontrando i giovani del Pdl, smentisce invece categoricamente le voci di un suo presunto coinvolgimento nelle stragi di mafia: "Sono accuse infondate ed infamanti. La maggior parte della magistratura è di sinistra e per questa ragione cerca un pretesto per attaccare il presidente del Consiglio", protesta Berlusconi, che se la prende poi contro chi racconta i fatti di mafia: "Se trovo chi ha fatto le nove serie de La Piovra e chi scrive libri sulla mafia che ci fanno fare una bella figura lo strozzo". Il premier ribadisce infine, ancora una volta, l'intenzione di giungere rapidamente a una riforma della giustizia, intervenendo per dividere l'azione dei giudici da quella dei pubblici ministeri.

"Questa volta mi pare il premier Berlusconi abbia fatto un pò autogol, perchè "La piovra" è roba di tanti anni fa, mentre le fiction tv più recenti sulla mafia, da Il capo dei capi a quelle su Falcone e Borsellino le ha fatte suo figlio per Mediaset", commenta sorridendo Michele Placido, popolare commissario Cattani proprio nella Piovra.

"Berlusconi, invece di scherzare con la mafia, farebbe bene a spiegare agli italiani perchè candida e si tiene al fianco persone condannate, seppure in primo grado, per fatti di mafia come dell'Utri e perchè si è tenuto in casa propria un mafioso come Mangano e perchè da imprenditore ha fatto affari con imprese nel territorio italiano vicine anche alla criminalità" ha detto il leader dell'Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, commentando le affermazioni di Silvio Berlusconi su chi scrive libri sulla mafia.

"Strozzare per far tacere è sempre stato il linguaggio di Cosa Nostra: evidentemente da oggi è anche quello del governo italiano", commenta Claudio Fava, figlio dello scrittore, giornalista e drammaturgo Giuseppe, ucciso dalla mafia nel gennaio 1984.

28 novembre 2009

 

 

 

 

 

Berlusconi ironizza sulle accuse

di mafia: "Barzellette"

27 novembre 2009

Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, a cena con i vertici di Alitalia a villa Madama ironizza sulle dichiarazioni dei pentiti di mafia che lo riguardano. "C'è qualcuno - ha detto il premier - che dice che mi sono molto occupato di mafia a partire dal '92. È vero ne ho raccontate molte di storielle...". Il premier ha poi ovviamente riferito una di queste barzellette: "C'è un bambino che chiede al padre: "Perché è morto Einstein?" E il padre: Troppo sapeva".

Berlusconi ha poi difeso la linea del rigore sui conti pubblici, dando così un attestato di fiducia al ministro dell'Economia Tremonti, attaccato nei giorni scorsi dai colleghi di Governo per l'intransigenza in tema di spesa pubblica."L'Italia sta reagendo meglio di altri alla crisi - ha detto - ma necessario mantenere il rigore di bilancio". Il premier ha ricordato poi che "il sistema bancario è solido grazie al risparmio delle famiglie" e che il Paese è messo meglio di altri "come dimostra il Pil del terzo trimestre".

27 novembre 2009

 

 

 

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